Corriere Fiorentino

DUE VERTENZE MEDIOEVALI

- di Eugenio Tassini

Chi scrisse la Costituzio­ne immaginava una Repubblica fondata sul lavoro, ma l’Italia è rimasta una Repubblica di città e di corporazio­ni di arti e mestieri. Una volta erano i panettieri, i macellai, i trasportat­ori di grano, i falegnami oggi sono gli insegnanti, i tassisti, gli autotraspo­rtatori, i dipendenti pubblici, i medici, gli avvocati, i notai e così via. Fra lavoro e corporazio­ne c’è una grande differenza, perché da sempre quest’ultima difende l’interesse di una parte anche contro quello comune e, se può, il monopolio di quella attività e l’inviolabil­ità delle regole — stabilite dalla stessa corporazio­ne — con le quali l’attività si svolge. A Firenze, in altri secoli, si arrivò a negare diritti politici a chi non era iscritto alle arti.

Dunque non c’è nulla di nuovo nel violento scontro al quale assistiamo oggi a Firenze fra potere politico e corporazio­ni, scontro che si riaccende ogni volta che la politica intende dettare le regole a una qualunque categoria privilegia­ndo quello che ritiene essere, a torto o a ragione, l’interesse dei cittadini. Tassisti e insegnanti rivendican­o ancora una volta la loro supremazia sull’interesse generale, che per esempio sarebbe quello di trovare un taxi, o di spendere meno. E che il braccio di ferro sia più acceso nella città del premier (ex sindaco) ci fa tornare ancora una volta a un mondo antico, medioevale, dove l’Italia non esiste (e quindi neanche lo Stato) e conta solo il Comune nel determinar­e il proprio essere e il proprio potere. Dentro quei confini si combatte la battaglia. È questo il caso della inspiegabi­le protesta contro la riforma della scuola: benché la Cgil si affanni a dire che non c’è nulla di simbolico, col trucco di una assemblea degli insegnanti il 15 settembre a Firenze i ragazzi salteranno il primo giorno di scuola.

Che i sindacati poi, nati in realtà nelle fabbriche e inizialmen­te uno dei motori dello sviluppo (e non solo nei diritti), anche del nostro Paese siano diventati nel corso del tempo un freno a qualsiasi cambiament­o è un altro dei paradossi italiani. Come se la corsa verso il futuro fosse finita da tempo, e non restasse altro che difendere quello che resta di ieri: regole che andavano bene in un altro secolo, un altro mondo, un’altra economia, un’altra tecnologia. Rinchiuden­dosi nel piccolo interesse di quella categoria, quel mestiere, quella corporazio­ne. Anche se questo vuol dire andare contro chi, nel mondo del lavoro, non riesce ad entrare. O contro chi comincia a diventare grande, in prima elementare, in prima media, in prima superiore. Per questo le due storie fiorentine sono esemplari: raccontano una città, e un’Italia, dove c’è chi non vuole cambiare. Anche nei modi di dire no.

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