Un anfiteatro romano che vale una rivincita
«Mio padre aveva ragione». L’archeologia «ufficiale», torto. Non lo hanno capito o non lo hanno voluto capire. «Troppo scetticismo sulle sue teorie». «Perché si era fatto da solo, fuori dai contesti ufficiali. Ha messo in ombra qualche insigne studioso, si è fatto molti nemici». Enrico Fiumi aveva intuito che Volterra non poteva essere stata solo una città etrusca. Ma anche una «grande città della romanità». Pochi lo presero sul serio tra gli anni Cinquanta e Sessanta. «Quante amarezze, si è rovinato la salute». A parlare è Piero Fiumi, figlio di Enrico il (non) archeologo che mezzo secolo fa scoprì il Teatro Romano di Volterra.
È della settimana scorsa la notizia di un nuovo ritrovamento da parte della Sovrintendenza ai Beni Archeologici della Toscana: un anfiteatro di 80 metri per 60 adibito ai giochi dei gladiatori, a due passi dal cimitero. Solo le città più importanti erano in grado di permettersi sia un teatro che un anfiteatro. Che si ipotizza addirittura possa essere di epoca augustea, cosa che ne farebbe uno dei primi costruiti fuori da Roma. Altro che città «decaduta nel processo di romanizzazione», come la storiografia ufficiale ha definito molte città etrusche, da Populonia a Volterra. «È la rivincita di Fiumi» ha detto Elena Sorge, l’archeologa che lo ha scoperto, in modo tra l’altro fortunoso.
Enrico Fiumi, scomparso 39 anni fa, era nato proprio a Volterra, nel 1908. Di mestiere economo dell’ospedale psichiatrico. La sua passione era la storia e nel ‘48 pubblica per Olschki una ricostruzione dell’impresa di Lorenzo dei Medici contro Volterra. «Ottiene la libera docenza nel ‘55, ma nel mondo accademico si inserisce solo come esperto di storia economica medievale». Approfondisce gli studi sulla Volterra etrusca e romana e nel 1950 diventa direttore del Museo Etrusco Guarnacci. Conduce campagne di scavo nelle necropoli e studia toponomastica e urbanistica medievale. Senza essere ufficialmente un archeologo. E fu «un colpo grosso quando nel 1950 trovò in alcune fonti dei riferimenti a un teatro romano a Vallebuona: ma — ricorda il figlio — quella era una teoria abbandonata da tempo, tanto che nel ‘41 lì fu costruito un campo sportivo. L’unica anima di Volterra che interessava all’epoca era quella etrusca».
Ha lottato per «ottenere il permesso di scavare ed ebbe intuizione e intraprendenza perché, lavorando al manicomio, si fece dare l’autorizzazione a utilizzare alcuni malati del reparto giudiziario per degli scavi esplorativi al lato del campo da calcio». Il 6 luglio iniziano a dare le prime picconate («mi ricordo l’emozione, avevo 10 anni», ricorda il figlio). Gli bastarono due mesi per trovare i primi reperti tra cui «dei frammenti di colonne e una testa di Augusto giovane». Ma a Volterra «il partito degli scavi era più debole del partito del calcio: non volevano che il campo fosse smantellato per delle teorie archeologiche. Si alzò un polverone mediatico» che durò fino al 1960 quando, finalmente, Fiumi poté entrare nel campo da calcio con il caterpillar e portare alla luce quello che oggi è il celebrato Teatro Romano.
Già nel ‘54 Fiumi fu al centro di «una grossa discussione con la sovrintendenza di Firenze per la titolarità degli scavi». Ma solo nel 1966 con la nomina a sovrintendente di Guglielmo Maetzke, «il primo a capire l’importanza di quegli scavi e a dare loro la precedenza nei finanziamenti», si cominciarono a vedere risultati importanti». Ci sono voluti dieci anni «di caparbietà per ottenere la sua vittoria». E altri cinquanta, oggi, per «la definitiva rivincita sul piano scientifico».