IL VELO INTEGRALE, UN MURO DI STOFFA
Con questo articolo comincia la collaborazione con il Corriere Fiorentino di Ginevra Cerrina Feroni, docente di Diritto Costituzionale all’Università di Firenze.
In Inghilterra alle donne islamiche potrebbe essere impedito di indossare il velo nelle scuole, nei tribunali e in altri uffici pubblici.
E in Italia ha fatto molto scalpore la delibera della giunta regionale lombarda del 10 dicembre 2015, in vigore dal primo gennaio 2016, con la quale sono state introdotte misure che vietano l’uso di caschi protettivi o di qualunque altro mezzo atto a rendere difficoltoso il riconoscimento della persona, nelle sedi istituzionali della giunta e degli enti e società del sistema regionale. La questione è nota e riguarda, in modo particolare, l’uso del velo integrale islamico negli spazi pubblici.
La delibera ribadisce norme nazionali già in vigore, ovvero il Regio decreto 773/1931 che fa divieto di comparire mascherati in luogo pubblico e la Legge 152/1975 che dispone il divieto di usare caschi protettivi, o di qualunque altro mezzo atto a rendere difficoltoso il riconoscimento della persona, in luogo pubblico o aperto al pubblico, senza giustificato motivo. Si tratta di norme peraltro sovente inattuate (come dimostrato dalla vicenda che ha dato l’avvio alla delibera lombarda), o variamente interpretate dai giudici (vedi il Consiglio di Stato che nel 2008 non ha ritenuto applicabile al Burqa tali norme). Il tema è oltremodo delicato e merita qualche riflessione.
Anche a voler lasciare stare le esigenze primarie di sicurezza del nostro ordinamento, e a parte anche il fatto che il travisamento del volto è circostanza aggravante di numerosi reati, a parte tutto questo, il velo integrale non è, a mio parere, in alcun modo ammissibile. Lo ha, peraltro, anche affermato la Corte europea dei diritti dell’uomo in una sentenza del 2014 motivando che esso sarebbe di ostacolo al «vivere insieme». Ed ha ragione. Il vivere insieme, ovviamente a volto scoperto, è infatti questione che si può definire predialogica, viene molto prima della interazione tra culture, è concetto che riguarda la stessa esistenza di una civiltà che voglia dirsi tale, appartiene ai fondamenti del consorzio umano poiché la ostensibilità del volto della persona inerisce ad un concetto di socialità e di relazionalità di natura primaria. Non ritengo neppure ci sia bisogno di scomodare il pensiero psicoanalitico freudiano sulla scoperta e valorizzazione dell’inconscio e sulle sue regole, che ha marchiato in modo indelebile tutta la cultura del Novecento, per affermare che il burqa (o suoi simili), se sradicato dal contesto territoriale e culturale originario, è un’entità simbolo perturbante, capace di generare reattività psicoemotive, a livelli diversi di intensità: reattività spesso non verbalizzate in quanto ritenute incongrue e razziste e oggetto dunque di censura in molti ambienti intellettuali. Col burqa viene a mancare innanzitutto lo sguardo come primo, imprescindibile segnale relazionale (vedi l’importanza del primo sguardo nello sviluppo della relazione affettiva madre-bambino). Viene a mancare in toto la comunicazione non verbale con le sue imprescindibili istanze informative, comunicative e interattive. Sintetizzando nell’immaginario collettivo, nel mondo onirico, nel mondo delle fiabe il volto nascosto di un individuo o la presenza di una maschera sul volto si associa sempre alla paura di un pericolo incombente. Dietro un volto celato non può che nascondersi un nemico: il bandito con il passamontagna, o la divisa inquietante del Ku Kux Klan. Il burqa è dunque una entità-simbolo che non intende affatto atte-
nuare le differenze, ma anzi tende a marcarle e rafforzarle. Nessuna «neutralità» ma, a mio modo di vedere, un telos, una direzione, una finalità…
In altri termini, il velo integrale, ovviamente quello indossato volontariamente (poiché la sua imposizione per il nostro ordinamento integra il reato di violenza privata di cui all’art. 610 codice penale) — e con tutte le difficoltà connesse nell’accertare in che misura vi sia autentica e spontanea «volontarietà» da parte della donna nell’indossarlo — non ha spesso nulla a che vedere con una devozione religiosa: peraltro neppure nel Corano si fa cenno all’obbligo del velo integrale. Esso esprime forte, invece, la volontà di separazione dagli altri, per dimostrare di avere una forte identità come musulmani, il che rinvia al tema delle società parallele che trovano nei simboli religiosi l’unico collante di identificazione di riconoscimento. Il problema dunque non è solo religioso, o genericamente culturale, bensì anche propriamente politico, nel senso della idea di società e di polity, con tutto il loro corredo di assetti istituzionali, di regole e strumenti (B. Lewis, G. Kepel, N. Ayubi). Ed è per questo che le nostre società dovrebbero prendere atto di questo e trattarle per quello che sono: rivendicazioni anche politiche (o almeno frutto di una concezione politica).
Ma aldilà della questione dei simboli e del loro significato anche politico, velo integrale in primis, la questione è assai più complessa e pone interrogativi circa la tenuta del nostro sistema costituzionale a fronte di usi e tradizioni apertamente in conflitto con quelli delle società occidentali avanzate (R. D’Amico). Esempio eclatante è, appunto, ancora la figura fantasma, subalterna e marginale, riservata alla donna, relegata al solo spazio privato, esclusa allo sguardo ma soprattutto all’impegno nella società. Sono note le obiezioni «politicamente corrette» che solitamente vengono proposte a controprova e cioè che fino alla metà del secolo XX quella donna che contestiamo ai musulmani, velo compreso, era una condizione assai diffusa nel Sud del nostro Paese, così come altrettanto diffuso era il patriarcato. Ma la questione sta in termini completamente diversi, ovvero il fatto che nell’Islam — a differenza che nelle democrazie occidentali dove il carattere laico dello Stato, principio fondante del costituzionalismo, non è mai stato messo in discussione — è la religione a forgiare i modelli culturali di riferimento, gli stili di vita, le azioni delle persone e dunque proprio perché essi traggono origine dalla trascendenza assumono un inevitabile peso normativo. Ecco perché dobbiamo dire no, con coraggio e senza troppi giri di parole, al velo integrale per le donne.