Corriere Fiorentino

Hafida, attivista di Nosotras

«Bene Cameron: imparare l’italiano libererà le donne»

- Marzio Fatucchi

«Se uno ha deciso di emigrare, soprattutt­o per il lavoro, ci deve essere la volontà di imparare la lingua del Paese, è per il suo bene. E del Paese che lo ospita». Hafida Bouchida, in Marocco, era insegnante di lingue: «Ne parlo diverse». L’italiano l’ha imparato qua, dove si è trasferita «perché mio marito già lavorava». Ora segue «160 donne per lo sviluppo femminile». Per aiutarle a trovare lavoro, autonomia e libertà nella nostra società. Insegna loro l’italiano, gli chiede comunque di impararlo. Si definisce di «cittadinan­za italiana, nazionalit­à marocchina». E orgogliosa del suo velo. «Quando sono arrivata, 24 anni fa, la gente mi fermava e mi domandava: perché lo porta?». La risposta era semplice: «Per la mia identità». Col velo ma integrata, musulmana praticante. «Fino a che i figli non sono cresciuti e andavano a scuola, sono restata a casa. Poi mi sono messa a fare concorsi, a presentare curriculum». E infine è approdata a Nosotras, associazio­ne di promozione tutta di donne immigrate: dall’Africa all’Europa passando dall’Asia. L’integrazio­ne, per loro, passa dalle donne. La loro prima battaglia fu contro la mutilazion­e genitale femminile. «Non è una pratica islamica, è vietato dal Corano dove c’è scritto che il corpo della donna è sacro e va curato. È violenza negare il piacere alla donna. In Marocco non è praticata, in Egitto sì ma anche in Paesi a maggioranz­a cristiana. Noi lavoriamo in Niger per togliere i “coltelli” alle donne che la praticano. Trovandogl­i un altro lavoro». Per lei il Corano «è la religione della convivenza, del rispetto». Ed è quello che racconta nelle sue lezioni di italiano, arabo e cultura islamica il sabato alle donne. «Mi arrivano tantissime analfabete, parlano di tradizioni di campagna come se fossero il vero Islam. C’è chi non lavora nel ristorante perché c’è il maiale, o perché ci sono uomini. Chi mi dice deve essere sottomessa all’uomo perché lo dice l’Islam: ma non c’è scritto, e io gli spiego perché». Versetti del profeta alla mano, smonta «ignoranza e superstizi­one. Accanto al profeta c’era una infermiera, di che parlano?». Per questo la chiave del dialogo, dell’integrazio­ne «è lo studio: della lingua, della cultura». Insomma, un po’ il premier Cameron ha ragione, allora? «Conviene anche al Paese che ci ospita insegnarce­la». Per raccontare il rapporto tra Islam e donne «fuori dagli stereotipi», con la Libera università di Scandicci, Nosotras tramite lei ha organizzat­o un corso di 5 lezioni in cui si parlerà di sessualità e islam, del ruolo della donna nella società, di genitorial­ità e di «musica e Amore (maiuscolo nel testo ndr) nella civiltà islamica». Con un confronto finale tra lei, un membro del Centro islamico fiorentino e un teologo cattolico. Ma il velo? «Il velo va bene, il burqa no — spiega — le mani e il volto devono essere sempre visibili. Chi lo fa pensando di avvicinars­i a Dio esagera. Lo sa che per entrare alla Mecca il burqa va tolto?». No: ora studio.

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