PEPITO, IL CAMPIONE DEL NON EGOISMO
La tripletta alla Juventus, l’infortunio con il Livorno, il difficile rientro
Pepito va a Levante, che è sempre meglio di Ponente, luogo di tramonti. La sua storia con la Fiorentina è stata una favola bella e triste che potrebbe anche non essere conclusa.
Perché secondo i termini dell’accordo con il club di Valencia la società viola un diritto di «recompra» se lo è assicurato, a dimostrazione che non soltanto crede sempre in Rossi, ma continua anche a volergli bene.
Però «Tornerai», in questo caso, sembra soltanto il titolo di una vecchia canzone. Tra le tante vicende che hanno movimentato e a volte perfino infastidito il sempre dibattuto tema degli arrivi e delle partenze in casa viola, la storia di Pepito Rossi occupa un posto tutto suo. Altri se ne sono andati cercando nuove e ricche maglie, portando in cambio molti milioni alla Fiorentina oppure nessun soldo (come Neto), ma forse neanche uno di loro ha percorso la strada di Rossi, che arrivò sotto forma di forte e anche costosa scommessa, torturato ed appena riemerso da una serie di infortuni al ginocchio. Il giocatore era nato campione nella New York dove viveva la sua famiglia, ma per sfuggire al «soccer», soffocato da sport molto più americani e più nativi (il basket che sforna leggende, la partita di baseball che ha i suoi indefiniti tempi e che come disse Yogi Berra «non è finita finché non è finita», il football degli uomini ingabbiati come palazzi in ristrutturazione), il giovanissimo e non ancora Pepito — fu il grande Bearzot, uno delle schiene più dritte del nostro calcio, a chiamarlo così — cominciò da Parma, dal settore giovanile di una società che allora contava ancora qualcosa, ma non tanto da riuscire a trattenere il promettente minorenne che emigrò in Inghilterra, al Manchester United. Dall’alto della sua sapienza, sir Alex Ferguson aveva capito quanto valeva quell’ italiano di lingua inglese e ogni tanto lo faceva affacciare in prima squadra, ma sapendo di non poter andare oltre in una formazione in cui all’attacco veleggiavano campioni come Cristiano Ronaldo, Rooney, Van Nistelroy e Giggs.
Era già tanto vederli dalla panchina ed entrare qualche volta in campo. Sempre convinto delle qualità dell’americanuzzo (per parafrasare Brera che i nostri azzurri li chiamava italianuzzi), Ferguson prima di lasciarlo percorrere altre strade, lo prestò al Newcastle e infine al Parma, luogo di partenza e di prima maglia. Anzi, seconda, perché la prima squadra di Giuseppe Rossi a New York aveva il vigoroso nome di Stallions.
Nel Parma allenato dal mai troppo apprezzato Ranieri, che ripartì dal piano terra dopo le panchine di prestigio in Spagna e Francia, Ranieri a cui tutto potrebbe accadere meno che un episodio come quello tra Mancini e Sarri, ed è forse proprio questo il suo limite nel rumoroso calcio di oggi, in quel Parma modesto ma efficace, Giuseppe Rossi si costruì la decisiva e meritata fama di seconda punta sul limite del meraviglioso. La sua nuova tappa si chiamò Villareal dove fu sterzato dal mitico sir Alex con un rimpianto fortemente mitigato da una plusvalenza di undici milioni di euro, e al Villareal Rossi incontrò gol, fama e dolore. Contro il Real Madrid, nella sua quinta stagione spagnola, si infortunò al ginocchio e lì cominciò, tra operazioni anche imperfette, il suo sfortunatissimo periodo al quale lo sottrasse con coraggiosa e dispendiosa mossa la Fiorentina: una scommessa inizialmente vincente, Pepito era capocannoniere fino al fallo di Rinaudo nella partita con il Livorno.
Da quel giorno Rossi non è stato più quello visto, amato, coccolato e applaudito dai tifosi viola, il Rossi dei tre indimenticabili gol alla Juventus, il Rossi delle serpentine, del tiro improvviso, della fatale precisione sotto rete, dello scambio rapido come un gioco di prestigio, del senso della porta, del non egoismo (sottoprodotto dell’altruismo), della ricerca della collaborazione per arrivare in area, del saper essere l’inizio e la fine dell’azione da gol. Non soltanto tre reti alla Juventus ma tutto quello che era calcio di squadra e calcio individuale, Rossi sapeva come farlo. Ne parliamo come se ora tutto ciò non gli riuscisse in via definitiva, ma è più corretto, e più giusto per lui, parlarne come di una cosa che in questo momento — un momento preceduto da lunghi mesi — non gli è congeniale «come ai bei tempi». La speranza è che in Spagna ritrovi qualcosa di suo. Certo avrà un posto da titolare, avrà quanto ha cercato con insistenza e forse anche con qualche invadenza negli ultimi tempi dentro a una Fiorentina che pure qualche occasione gliel’ha concessa con un Paulo Sousa paziente e temporeggiante. Ma il modulo è quello che è, forse quello che era, perché con i nuovi acquisti («rinforzini» come potremmo chiamarli ispirandoci al conte Mascetti di qualcosa potrebbe anche cambiare. Comunque sia alla Fiorentina non si può certo rimproverare di non aver assistito, di non aver pazientato. Le strade si sono separate, Rossi sta cercando la sua.