Corriere Fiorentino

Nocentini, la prima bacheca «Anche io sono nato qui»

I MESSAGGI SCRITTI DAI FIORENTINI

- di Chiara Dino

Catia è venuta il giorno di San Giovanni, quando il museo era aperto alla città gratuitame­nte e per entrare la coda era lunga e assolata. Ha la grafia di una donna adulta, verrebbe da pensare a una prof, e di cognome fa Degl’Innocenti. Su un foglio bianco, un piccolo foglietto da appunti, ha lasciato un messaggio: «Sono anche io una nocentina e mi piacerebbe sapere chi sono i miei antenati...».

Scampoli di storie così, nella bacheca del bookshop, dentro al nuovo museo degli Innocenti inaugurato sei giorni fa, ce ne sono a decine. Tu le leggi e cerchi di immaginare chi mai sarà Catia e che vita avrà avuto. Quando e come avrà saputo che sua madre l’aveva affidata alle cure dell’antico Spedale, cosa le sarà passato per la mente la prima volta che ne ha preso coscienza, se ha fatto pace con questa vicenda, quando lo ha raccontato ai suoi figli. Vien voglia di conoscerla Catia e farsi raccontare la sua storia per filo e per segno, come quando si legge l’incipit di un romanzo e poi si vorrebbe continuare ancora e ancora fino ad arrivare alla fine. Quello che è certo è che nel giorno di San Giovanni per lei è stato un po’ come tornare nella casa della sua prima infanzia. Una casa diversa da quella di tanti, come racconta l’allestimen­to museale che molto spazio lascia alle vicende di vita vissuta, alle immagini dei bambini fotografat­i insieme alle balie quando erano in fasce, e poi, più grandi, tutti a giocare negli spazi all’aperto, come fossero sempre all’asilo.

Catia è una ma ce ne sono decine di biglietti come quello lasciato da lei. Non solo ex nocentini hanno lasciato un pensiero, un disegno, una traccia. Segno che per dar vita a un museo interattiv­o non occorrono effetti speciali. Solo un po’ di criterio, la consapevol­ezza che un luogo dell’arte deve dire qualcosa che ci tocchi sul serio — solamente così la bellezza ha un suo senso — e magari qualche foglietto e delle matite, come quelle Giotto che abbiamo usato nei primi anni di scuola, quelle di tanti colori.

Franca ha sessant’anni e ha fatto di più, ha raccontato un segreto. Chissà se lo aveva fatto mai prima d’ora. Se così non è stato la sua prima visita al museo rinnovato è stata catartica, come togliersi un peso che t’ingombra da tutta una vita. E magari alla fine del giro, sarà uscita più leggera e serena: «Anch’io ho vissuto qui per un periodo — ha scritto a matita, col viola, — la prima sera che sono andata a letto avevo paura di fare la pipì. Non l’ho fatta». Per Franca questa pipì è stato uno dei momenti più importanti di tutta una vita. Il suo ricordo l’ha accompagna­ta per sempre. Giovanna, 82 anni, ha lanciato un appello: «Sono Giovanna. Sono dell’8 -7-1934 e non so niente di me, ma lo vorrei». Chissà che non scopra qualcosa.

C’è anche chi si firma con nome e cognome, probabilme­nte ha vissuto qui con sua madre. Ecco il biglietto di Salvatore Bianchi che di anni oggi ne ha 63: «Sono nato in questo ospedale nel marzo 1953. Vorrei ringraziar­e tutte quelle persone che hanno creduto in me». Sil, che starà per Silvana, è più stringata. E più che a se stessa ripensa a un racconto che le avranno fatto quand’era bambina: «Ho visitato il luogo dove a vissuto l’infanzia mio nonno». Proprio così con la «a», a ricordare chi le avrà parlato dei suoi primi anni qui in piazza Santissima Annunziata tra foto in bianco e nero e una vita di gruppo.

Non sono tutti di questo tenore i biglietti. I più divertenti sono quelli lasciati dai bimbi: Rebecca, che avrà sì e no sei o sette anni — scrive a stampatell­o e predilige il linguaggio fatto di disegni e colori — sembra la protagonis­ta di una fiaba di Hans Christian Anderson. Dove la verità non è mai dominio di grandi. «Io sono fortunata perché ho due case. Mi dispiace per voi». Ha ragione, non le si può obiettare proprio un bel nulla.

Zita che alla voce età, nei biglietti prestampat­i distribuit­i al museo, ci informa che frequenta ancora quella «dell’innocenza», ha messo insieme il linguaggio di ieri e di oggi. E su una figura che ha la faccia di uno smiley ridente ha avvolto le stesse fasce dei putti robbiani. E ancora accanto alla figura di un bimbo vestito d’arancio e di fucsia sta scritto: «L’ho fatto io, Riccardo e ho una famiglia».

Pierluigi ricorda il «nonno paterno abbandonat­o qui alle fine del 1.800»; Sonia lo «zio Archimede adottato dai miei nonni, ed amatissimo sia dai nonni che da mia madre e mia zia» che evidenteme­nte adottate non erano, una famiglia allargata; Annalisa e Fulvia forse parlano di se stesse visto che hanno scritto: «Un fantastico tuffo nel passato. Grazie per questa bellissima esperienza»; Carla invece ha rivolto un pensiero alla nonna: «Mi ha emozionato vedere questi luoghi dove anche mia nonna è passata. Grazie».

Qualcuno, che non ha voluto firmare il messaggio, ma che ci piace pensare sia un uomo, ha lasciato un pensiero dedicato alle donne, cogliendo forse uno dei tratti più veri di questo posto speciale. Il Museo degli Innocenti, prima di raccontare storie di bambini e bambine diventati adulti qua dentro, racconta storie di donne. Nella carrellate di foto d’epoca, che scorrono ora in schermi touch screen ora nei grandi video della sezione dedicata al passato, le più toccanti sono quelle che ritraggono balie. Balie che allattano e nutrono, balie che svezzano, balie che insegnano a muovere i primi passi, che riparano dal caldo e dal freddo alle cui sottane stavano attaccati i più piccoli. Mamme putative. Quelle che forse intenerisc­ono meno ma senza le quali questo posto non avrebbe mai potuto dare ricovero per secoli a piccoli bisognosi di tutto. «Donne che soffrono la miseria — si legge — Donne costrette alla sofferenze per dover abbandonar­e un figlio. Donne (le suore) dedite a sollevare almeno un po’ di dolore». Donne che hanno regalato il latte del loro seno a figli di altre donne, il vero pilastro di questa storia lunga più di sei secoli.

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I messaggi appesi nella bacheca del nuovo bookshop al termine del percorso nel Museo degli Innocenti
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 ??  ?? «Sono emozionato, qui c’è stato il mio nonno paterno abbandonat­o»
«Sono emozionato, qui c’è stato il mio nonno paterno abbandonat­o»
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«Sono nato qui nel 1953, grazie a quelli che hanno creduto in me»
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«Sono anche io una nocentina, vorrei sapere chi sono miei antenati»
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«Sono figlio di una ragazza madre che la mattina mi lasciava qua»

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