CARO BUD, E CARO NONNO
RICORDI INCANCELLABILI Quelle serate con Trinità alla tv, che facevano famiglia
Bud era il mio amico Marco durante le nostre polverose avventure in Messico. Lui grosso, burbero, di poche parole. Buono. Camminavamo sotto il sole di Puerto Escondido.
Esausti, sporchi, senza un pesos in tasca e ci sentivamo loro, Bud Spencer e Terence Hill. Bud ero io, quando badavo mio fratello Gianluca e ne approfittavo per fare scorpacciate di televisione. Ci stavamo ore, avanti e indietro con il videoregistratore e come rideva il piccolo Gian a ogni cazzottone di Tom (Bud) e Slim (Terence) in Io sto con
gli ippopotami. Erano ore di serenità. In cui mi sentivo quello più grande, il fratellone che insegna e protegge. Due generazioni diverse, anzi tre. Perché Bud, anzi Bambino, è e sarà sempre mio nonno Marino. Sporco, burbero, di poche parole, con delle mani grosse così. Io ero Terence, anzi Trinità: mi sentivo sempre più furbo, più intelligente, più bello, più moderno, più avanti.
Io e mio nonno però ci chiamavamo Pirlo (il calciatore non c’entra, Pirlo era uno dei tanti personaggi a cui Bud dava il suo tipico cazzottone in testa). Pirlo sono io, Pirlo era lui. Lui mi chiamava così se era di buon umore. Io facevo altrettanto quando lo prendevo in giro per quella pancia tonda, una «cucambra», nel nostro dialetto bolognese storpiato, cocomera (che poi, certo, al massimo si dice cocomero). Tutto è partito da Lo
chiamavano Trinità, dove Bud-Bambino fa lo sceriffo, mangia i fagioli (come solo lui sapeva mangiare) nella polvere del West, sporco, affamato, al solito di poche parole e tante botte. Avevo al massimo cinque anni quando tutto cominciò, ma Pirlo ero e Pirlo sono rimasto. Così il mio nonno. «Ciao Pirlo come stai?». «Oh, Pirlo, finalmente ti sento». Questo era l’incipit delle nostre telefonate, anche delfornaio l’ultima, prima che se ne andasse, cinque anni fa. Non ci vedevamo mai, da quando sono a Firenze per questo dannato lavoro e lui a Bologna, custode dei miei ricordi, nella mia città. Negli ultimi tempi aveva smesso di telefonarmi, aveva paura di disturbare il nipote diventato giornalista. Le parti si erano invertite.
Una volta ero io che avevo paura di disturbarlo: mio nonno era l’unico che temevo davvero. Sono cresciuto con lui. Nella casa sopra la nostra bottega. Pirlo era il miglior artigiano di Bologna. Con una lima sapeva fare una chiave. Saldava i pezzi di acciaio tenendoli fra le mani nude. Le scintille gli zampillavano addosso, sul grembiule, sui pantaloni, in faccia, mentre stringeva fra i denti una MS. I clienti lo adoravano, lui parlava poco, sembrava sempre che lo infastidissero. Eppure in negozio c’era la fila, qualcuno veniva buttato fuori se esagerava con le richieste o se, poveretto, sbagliava il momento. Qualcun altro, a esempio il di San Mamolo (il mio quartiere) passava le giornate sullo sgabello davanti al bancone. Sembrava l’aiutante di Bambino che non sta mai zitto. Pirlo non lo sopportava, ma non ne poteva fare a meno. E lui sapeva che alla lunga 500 lire per un bicchiere di vino ci scappavano sempre. Il fornaio era bianco di farina, mio nonno nero di grasso e fumo. Ricordo i colpi di tosse per le scale che sentivo dalla mia camera quando tornava per pranzo o cena. Il passo pesante sugli scalini di marmo. L’ingresso in casa, il solito saluto («Oh Pirlo», oppure quando era in buona «Oh Pirlo set fat in cu?» Cosa hai fatto oggi?). Entrava lui e che puzza. Le mani nere, la faccia nera, i jeans di un colore indefinito sotto la pancia, a penzoloni. E la MS in bocca. Anche a tavola. Il nostro piatto irrinunciabile erano i fagioli: che gare a chi li finiva prima. Il trofeo era la pagnotta con cui pulire il piatto. Pirlo era Bud Spencer, io Terence Hill. Che coppia eravamo. E che avventure. Una volta ci perdemmo per giorni in Maremma, con la tenda, giorno e notte a pescare. Zingari sull’Alfasud gialla che si chiamava Carolina, come una bella cavalla di razza. Sporchi, accampati dappertutto, tra i butteri e i loro cavalli nel parco di Principina. A sbafarci carne alla griglia o il pescato del giorno e più spesso fagioli in scatola. A farmi provare per la prima volta la birra stretta tra le mani sporche di bigattini, puzzolenti di pesce e pastura. Io con la canotta bucata come Trinità, Pirlo con la barba e la pancia che sembrava far esplodere da un momento all’altro la camicia sporca e lisa come quella che indossava sempre Bambino. La pelle del viso bruciata, la polvere, io che aspiravo di nascosto il fumo delle MS. Siamo stati capaci di non parlarci per giorni, perché a pescare — e ci andavamo quasi ogni domenica oltre alle avventure dell’estate — come nei western si litiga. Pirlo mi sgridava, con la lenza ne combinavo sempre una, io mi offendevo. Silenzio. Fino al rientro a Bologna, al bagno bollente e disinfettante preparato dalla nonna con mille pezzi di sapone dentro. Fino al vero approdo, il divano grigio in salotto: «Pirlo vieni c’è Bud Spencer, ho messo su la videocassetta!!!».
Tutto era famiglia, la TV, i suoi piedacci sul tavolino, il fumo delle sue MS, gli odori, la serenità, i pistoleri che prendevano un sacco di botte ma non morivano mai. E Pirlo che davanti ai cazzotti di Bambino tornava bambino, rideva come un matto, ogni volta, sempre alle stesse scene che ripetevamo a memoria. Ero felice.
L’ultima volta che mi ha telefonato prima del ricovero stava guardando Trinità. Sentivo la sua TV che faceva eco con la mia attraverso il telefono. «Pirlo non sei al giornale?». «No Pirlo sono a casa, guardo Trinità, come stai?». «Insomma, sono stanco, volevo dirti se vieni a Bologna, devi scegliere le canne da pesca che ho in cantina, non possiamo più andare a pescare». Non ricordo l’ultima volta che abbiamo pescato insieme. Non ricordo di essermi reso conto che era l’ultima. E forse anche per questo rimorso non ho mai smesso di guardare i film di Bud Spencer. Li ho fatti vedere a mio fratello Gianluca, li abbiamo continuati a vedere nelle serate di nostalgia per la nostra Bologna io e il mio caro amico Marco quando vivevamo insieme qui a Firenze e volevamo sentirci in famiglia, sereni, confortati, per un paio d’ore. Tre generazioni.
I film di Bud Spencer e Terence Hill, quelli importanti, li ho tutti in Dvd. Li conosco a memoria, ma li continuo a vedere quando li danno in Tv, non posso fare altrimenti. Non potrei mai cambiare canale. Sarebbe come voler rinunciare al ricordo delle mani nere di Pirlo. E io non sarei più Pirlo. Voglio continuare ad esserlo, ma che fatica, caro Bud, caro nonno.