Angoli, palazzi e monumenti: nella nostra rive gauche Da riscoprire
Non è la Firenze più antica, resta la più vera: il rione ha conservato porte e mura Una mappa ragionata per scoprirne i segreti
Non è la Firenze più antica, ma resta la più autentica. È entrata tardi nel perimetro della città murata e in un primo tempo vi costruirono i loro palazzi i nuovi ricchi della finanza e del commercio, dopo che le famiglie più antiche avevano monopolizzato la riva destra. Ma col Granducato il baricentro politico si riequilibrò, con la reggia di Palazzo Pitti a fare da pendant a Palazzo della Signoria.
E proprio da Pitti bisognerebbe partire per questo viaggio sentimentale alla ricerca dell’Oltrarno perduto, fra gli ultimi robivecchi e i più blasonati antiquari. Ma con un’accortezza: non raggiungerlo seguendo l’itinerario percorso dalle folle turistiche che dal Ponte Vecchio vi arrivano attraverso via Guicciardini. Meglio entrare in piazza Pitti all’improvviso, calcando il lastricato di una di quelle strade strette come vicoli che, come via dei Velluti, vi si immettono lateralmente. Il contrasto fra la composta serenità della reggia e le angustie di queste vie nate per riparare dal sole estivo e dal vento invernale abitazioni che fino al ‘600 non avevano vetri alle finestre regala un colpo d’occhio paragonabile a quello che prima della nascita di via della Conciliazione coglieva il pellegrino arrivato di colpo a San Pietro. E c’è in questa prospettiva tutta la magia un po’ triste dell’Oltrarno, fatta di armonie ma anche di dissonanze, nel contrasto fra la magnificenza dei palazzi del potere, delle basiliche, dei grandi giardini, pubblici o segreti, da Boboli al giardino Torrigiani, con la sua torretta neogotica e le sue sfingi egizie, al cimitero ebraico di viale Ariosto, con le sue piramidi e le sue colonne mozze. È terra di contrasti, l’Oltrarno, terra di moccoli e tabernacoli, dove vissero re e tumultuarono i Ciompi; ancora nell’Ottocento il popolino che la domenica voleva passeggiare in centro si vedeva sbarrare sul ponte alla Carraia il transito dai bersaglieri comandati in servizio d’ordine pubblico, perché con i suoi cenci da quarto stato non turbasse lo struscio dei tranquilli borghesi.
A San Frediano e Santo Spirito gli orti che un tempo si estendevano negli isolati sono stati sacrificati alla speculazione edilizia, e in via dell’Olmo non c’è più il medesimo, ma per riscoprire la vocazione agreste dell’Oltrarno basta seguire una delle tante «coste» — dei Magnoli, Scarpuccia, San Giorgio, — che dal centro s’inerpicano sulla collina, fra svettare di cipressi e rampicanti aggrappati ai muri a secco. Perché Oltrarno è anche il quartiere di Firenze in cui l’antica anima collinare si è conservata più a lungo e che riserva alcuni fra i più suggestivi belvedere sulla città e sul paesaggio circostante: Bellosguardo, da cui si scorge un panorama forse più bello che sul Piazzale, ma che è meno noto perché (per fortuna) non vi arrivano i pullman; Santa Margherita a Montici, Arcetri, Monte Oliveto. In piazza Santo Spirito la statua dell’agronomo Ridolfi, che sarebbe potuto vivere di rendita e invece consacrò la sua vita allo studio, contempla corrucciata i perdinotte di quella bohème alla sangria che è la movida. In alcuni vicoli le case, tutte sviluppate in altezza come certi alberghetti parigini, hanno al pian terreno le finestre protette solo da un triste incannicciato; ma ai piani alti appare d’incanto una monofora a sesto acuto, memoria di medievali grandezze. In via Maggio l’arme di Bianca Cappello, cortigiana divenuta granduchessa, convive a pochi numeri di distanza con quella di Giuliano Dami, prosseneta e drudo di Giangastone, entrambe poco lontano dalla lapide che ricorda Elizabeth Barret, delicata poetessa vittoriana.
In piazza Tasso, nata dalla demolizione del malsano Malborghetto, due lapidi si guardano in cagnesco (o forse no: i morti sono più savi dei vivi). Una ricorda le vittime di una retata fascista, l’altra i caduti «sanfrianini» della campagna d’Etiopia. Qui un Franco Cardini con i primi pantaloni lunghi, preoccupato perché l’indomani voleva andare a ballare alla Casa del Popolo di via Pisana, assisteva al contestato comizio del consigliere comunale missino Benfatti. Quello slargo sul trivio fra via dello Sprone, via Toscanella e via dei Vellutini, che Mario Mariotti battezzò con una denominazione non a caso triviale, sembra finto, come ritagliato su quinte di cartone per una scenografia teatrale; ma poi si scopre che vi elesse il proprio studio il grande cartellonista Silvano Campeggi, e si capisce che anche la finzione può diventare realtà.
La vera finzione dell’Oltrarno di oggi è altrove. È nelle enoteche e nei vinaini che hanno preso il posto delle mescite o delle buche dei palazzi signorili dove il popolo comprava a buon mercato il Chianti, antico antidoto al male di vivere.
È nelle casupole con appena il «licitte» che per secoli hanno uggito la miseria, in cui le famiglie per lavarsi andavano una volta la settimana ai bagni pubblici di via Sant’Agostino e che ora vengono offerte a prezzi d’affezione a facoltosi stranieri. Eppure, nonostante questo, nonostante l’eutanasia di cenciai e robivecchi, lo spleen di certi pomeriggi fra via Romana e il Carmine con vicoli e strade desertificati dalla Ztl, persino la scomparsa di Gano, il duro dei Sanfrediano del Grillo Canterino, sopraffatto dalle nuove orde di coatti in Suv, Oltrarno rimane la Firenze più autentica, e non solo perché ha conservato in gran parte le mura, e con esse le porte, le più belle di Firenze, non ancora ridotte a isolato e un po’ imbarazzato monumento come sulla riva destra. Lo rimane il Diladdarno ottocentesco e romantico, con piazza Demidoff e il baldacchino che sovrasta la statua del principe filantropo, come quello dei secoli dimenticati, con la magia di un tramonto al Cestello o l’incanto notturno della facciata di Santo Spirito ritagliata contro l’azzurro cupo del cielo. È qui, forse, nonostante tutto, che l’Oltrarno perduto potrebbe divenire un Oltrarno ritrovato.
Una terra di contrasti Nell’800 al popolino era vietato il ponte alla Carraia, per non turbare lo struscio dei borghesi