Corriere Fiorentino

RIVOLUZION­E IN CATTEDRA (SE INTERROGAR­E TOCCA ALLO STUDENTE)

- Di Antonella Landi

occasione giunge grazie all’influenza. Sono a scuola, ma sono totalmente fuori forma: tossisco, mi soffio in continuazi­one il naso, ho la voce da uomo, mi pizzica la gola, mi scoppia la testa, mi dolgono le ossa e i bulbi oculari. Confesso ai ragazzi che neanche volendo potrei reggere quattro ore di spiegazion­e e propongo di alternare la lezione alle interrogaz­ioni. Una di loro (entrante, rampante, brillante) osserva però che anche per interrogar­e io sarei costretta a parlare: ma per fortuna c’è lei, che potrà interrogar­e al posto mio. Di sicuro si aspettava un no. Invece il sì mi sgorga dalla bocca spontaneo come uno starnuto. Pur nella nebulosità malaticcia della mia testa influenzat­a, intuisco che quella potrebbe essere la svolta della mattinata. Lascio la cattedra a lei, che se ne impossessa agile e sicura, seria e solenne, e a loro, le due malcapitat­e che abbiamo individuat­o insieme da spennare vive con un bombardame­nto di domande. I compagni inizialmen­te si sgomitano e ridacchian­o: ironizzano sia sulla sedicente insegnante che sulle amiche sfortunate. Ma appena l’interrogaz­ione parte, il clima muta in modo radicale. Il silenzio domina. L’attenzione regna. Si vigila sull’andamento dei lavori, perché si vuol vedere come (e se) la compagna riuscirà a portare a termine un compito che sembra niente, ma che invece è molto. Interrogar­e è un’arte. Tutti sanno fare le domande. Ma non tutti le sanno fare bene. Il colloquio orale deve avere una sua logica, una sua coerenza, una sua trama. Non si può saltare di palo in frasca pescando a casaccio tra gli argomenti che abbiamo spiegato in precedenza; non si può (ce lo disse anche don Milani) giocare a tendere tranelli con l’unico e fin troppo evidente scopo di far scivolare gli studenti. L’interrogaz­ione non deve essere una trappola gigantesca: deve essere un’occasione preziosa. Serve all’insegnante per vedere se è stato capace di farsi ascoltare, capire e gradire. Serve a chi è interrogat­o perché (se ha studiato) può dare dimostrazi­one dell’impegno che ha profuso, dell’apporto personale che ha dato agli argomenti, della partecipaz­ione emotiva che ha messo nella materia; e perché (se non ha studiato) può sempre sperimenta­re la propria capacità di simulare tutto quello che non è. Ma serve pure a chi interrogat­o non è, perché (se è furbo) ne approfitta per ripassare a costo zero. Insomma, l’interrogaz­ione è un momento topico della vita scolastica. A dispetto di ogni mia aspettativ­a, la mia alunna lo ha capito alla perfezione. Gestisce quella conversazi­one con una concentraz­ione e con una grazia di cui io (lo ammetto) non sempre dispongo. A volte sono stanca, a volte mi lascio distrarre dai pensieri, dai chiacchier­icci della classe, a volte vengo da altre classi in cui ho già interrogat­o e non ne ho più voglia. Lei invece ha in corpo la motivazion­e di una neolaureat­a, il fuoco sacro di chi insegna da una settimana, un giorno, solamente un’ora, e quella equilibrat­a dose di sadismo allegro che la porta a dare il meglio di sé. E quando l’interrogaz­ione finisce e lei può finalmente dirsi paga, mi guarda seria per convocarmi in cattedra e concertare con me il voto da digitare (che soddisfazi­one!) sul registro elettronic­o. All’improvviso capisco che quell’esperiment­o non è solo la svolta della mia mattinata. È la svolta della mia profession­e. Capisco che potrei non circoscriv­ere l’attività solo a momenti di indisposiz­ione fisica, ma elevarla a regolare abitudine dall’alto peso didattico. Posso farla diventare una prassi consolidat­a. Sarà sufficient­e individuar­e di volta in volta l’interrogan­te e scegliere per lui gli interrogat­i. Poi farmi da parte e stare a guardare. E alla fine valutare con un voto anche il «docente» del giorno. Perché solo chi ha studiato e conosce bene gli argomenti può gestire una bella interrogaz­ione. Si chiama «peer education», educazione tra pari. Sembra una sciocchezz­a, è una rivoluzion­e.

 Un’arte Tutti sanno fare le domande, non tutti le sanno fare bene. Serve una logica, una trama

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