RIVOLUZIONE IN CATTEDRA (SE INTERROGARE TOCCA ALLO STUDENTE)
occasione giunge grazie all’influenza. Sono a scuola, ma sono totalmente fuori forma: tossisco, mi soffio in continuazione il naso, ho la voce da uomo, mi pizzica la gola, mi scoppia la testa, mi dolgono le ossa e i bulbi oculari. Confesso ai ragazzi che neanche volendo potrei reggere quattro ore di spiegazione e propongo di alternare la lezione alle interrogazioni. Una di loro (entrante, rampante, brillante) osserva però che anche per interrogare io sarei costretta a parlare: ma per fortuna c’è lei, che potrà interrogare al posto mio. Di sicuro si aspettava un no. Invece il sì mi sgorga dalla bocca spontaneo come uno starnuto. Pur nella nebulosità malaticcia della mia testa influenzata, intuisco che quella potrebbe essere la svolta della mattinata. Lascio la cattedra a lei, che se ne impossessa agile e sicura, seria e solenne, e a loro, le due malcapitate che abbiamo individuato insieme da spennare vive con un bombardamento di domande. I compagni inizialmente si sgomitano e ridacchiano: ironizzano sia sulla sedicente insegnante che sulle amiche sfortunate. Ma appena l’interrogazione parte, il clima muta in modo radicale. Il silenzio domina. L’attenzione regna. Si vigila sull’andamento dei lavori, perché si vuol vedere come (e se) la compagna riuscirà a portare a termine un compito che sembra niente, ma che invece è molto. Interrogare è un’arte. Tutti sanno fare le domande. Ma non tutti le sanno fare bene. Il colloquio orale deve avere una sua logica, una sua coerenza, una sua trama. Non si può saltare di palo in frasca pescando a casaccio tra gli argomenti che abbiamo spiegato in precedenza; non si può (ce lo disse anche don Milani) giocare a tendere tranelli con l’unico e fin troppo evidente scopo di far scivolare gli studenti. L’interrogazione non deve essere una trappola gigantesca: deve essere un’occasione preziosa. Serve all’insegnante per vedere se è stato capace di farsi ascoltare, capire e gradire. Serve a chi è interrogato perché (se ha studiato) può dare dimostrazione dell’impegno che ha profuso, dell’apporto personale che ha dato agli argomenti, della partecipazione emotiva che ha messo nella materia; e perché (se non ha studiato) può sempre sperimentare la propria capacità di simulare tutto quello che non è. Ma serve pure a chi interrogato non è, perché (se è furbo) ne approfitta per ripassare a costo zero. Insomma, l’interrogazione è un momento topico della vita scolastica. A dispetto di ogni mia aspettativa, la mia alunna lo ha capito alla perfezione. Gestisce quella conversazione con una concentrazione e con una grazia di cui io (lo ammetto) non sempre dispongo. A volte sono stanca, a volte mi lascio distrarre dai pensieri, dai chiacchiericci della classe, a volte vengo da altre classi in cui ho già interrogato e non ne ho più voglia. Lei invece ha in corpo la motivazione di una neolaureata, il fuoco sacro di chi insegna da una settimana, un giorno, solamente un’ora, e quella equilibrata dose di sadismo allegro che la porta a dare il meglio di sé. E quando l’interrogazione finisce e lei può finalmente dirsi paga, mi guarda seria per convocarmi in cattedra e concertare con me il voto da digitare (che soddisfazione!) sul registro elettronico. All’improvviso capisco che quell’esperimento non è solo la svolta della mia mattinata. È la svolta della mia professione. Capisco che potrei non circoscrivere l’attività solo a momenti di indisposizione fisica, ma elevarla a regolare abitudine dall’alto peso didattico. Posso farla diventare una prassi consolidata. Sarà sufficiente individuare di volta in volta l’interrogante e scegliere per lui gli interrogati. Poi farmi da parte e stare a guardare. E alla fine valutare con un voto anche il «docente» del giorno. Perché solo chi ha studiato e conosce bene gli argomenti può gestire una bella interrogazione. Si chiama «peer education», educazione tra pari. Sembra una sciocchezza, è una rivoluzione.
Un’arte Tutti sanno fare le domande, non tutti le sanno fare bene. Serve una logica, una trama