Corriere Fiorentino

Scoprire in un piatto la storia dei conciatori

IL REPORTAGE PESCIA

- di Divina Vitale

PESCIA (PISTOIA) Dagli scarti delle pelli di vitello che si lavoravano in conceria, nasce un piatto tipico di una parte della Valdinievo­le, conosciuto come Cioncia pesciatina. Gli operai delle concerie, un tempo attive sul territorio, portavano a casa i resti (in balle) e le mogli li cucinavano per sfamare le famiglie, oppure li vendevano alle bettole (osterie) per ricavarci qualche soldo.

L’attività conciaria ha origini medievali, ci sono testimonia­nze che risalgono già alla seconda metà del Trecento dove erano attive corporazio­ni conciarie. Alla fine del Quattrocen­to tanti artigiani accanto al loro nome battesimal­e aggiungeva­no persino la qualifica di «conciaio». Le pelli erano facilmente reperibili in Toscana ma giungevano anche dall’estero, attraverso il porto di Pisa o i mercanti lucchesi. Già nel 1766 un documento redatto per volere del Granduca Leopoldo di Toscana attestava la presenza di 3 concerie nel pesciatino dove si lavoravano circa 7000 pelli ogni anno. Nel 1911 il censimento del Ministero dell’industria annotava invece il raddoppio in 6 concerie, sulle 628 totali in Toscana, considerat­e tra le migliori d’Italia. Un detto popolare infatti diceva che a Pescia si trovavano «le più pregiate vacchette». Qui i lavoratori, detti «scortichin­i» sgrassavan­o e ripulivano le pelli di vitello, recuperand­o i pezzi di carne rimasti attaccati, i più callosi: la testina che non serviva e altri pezzi come labbra, guance, orecchie e naso. Queste parti non erano solo la ricompensa del lavoro di scarnitura ma anche gli ingredient­i principali della Cioncia pesciatina. Questa prelibatez­za viene cucinata ancora oggi, tutto l’anno, i ristoranti ne preparano oltre un quintale, anche se la richiesta cresce in inverno perché trattasi di un piatto molto calorico. Il nome inoltre è dovuto alla consistenz­a che non è né dura né morbida. «Mettiamo a bollire il musetto in acqua bollente con una cipolla, una co- sta di sedano, una carota e sale, per 2 ore circa — dice Alessandro Giampieri, titolare con i familiari della trattoria da Nerone — Una volta cotto lo tagliamo in piccoli pezzi. Nel frattempo in un tegame prepariamo un soffritto con sedano, carota, aglio, cipolla, aggiungiam­o la carne, dopo circa 10 minuti facciamo evaporare con il vino. Uniamo la salsa di pomodoro e proseguiam­o la cottura per circa 1 ora, con coperchio a fiamma bassa. Al bisogno c’è da aggiungere un po’ di brodo. Aggiustiam­o con sale e peperoncin­o. La specialità va servita in recipienti caldi (possibilme­nte di terracotta)». «Diversi anni fa organizzam­mo una cena per 40 persone – racconta Manuel Becchi, della Taverna del Vin Vino, realizzata in una ex stalla di vitelli a Borgo a Buggiano — con un menu stabilito dal festeggiat­o. Lui era un appassiona­to della Cioncia e quindi la volle inserire come piatto principale. Ne fui molto sorpreso ma anche spaventato perché è un piatto della tradizione sì, ma molto particolar­e. Infatti durante la serata dovemmo correre ai ripari con svariati cambi di pietanza perché rimane un ottimo piatto per molti, ma non per tutti. Gli ingredient­i per una Cioncia perfetta sono la testina o musetto di vitello fatti a pezzi e, a seconda delle tradizioni familiari, altre parti tipo la coda, di rimanenza dalla lavorazion­e del pellame. Bisogna mettere a rosolare in un tegame capiente sedano, carote, cipolla, aglio con olio, aggiungere la testina e farla insaporire, infine il vino. A questo punto, vi si versano i pomodori pelati, si aggiunge sale e pepe e si fa cuocere un’ora». «Prepariamo un fondo di sedano, carota, cipolla, aglio, alloro, nepitella con olio extra vergine di oliva e si rosola in un tegame di alluminio basso — spiega lo chef Iacopo Vannini del ristorante Villa Garzoni a Collodi (il complesso risale al XVI secolo) — Gli scarti del vitello vengono tagliati a striscioli­ne e sbollentat­i per una buona mezz’ora in acqua salata. Dopo averli ben scolati, li facciamo cuocere nel fondo di verdure e si fanno evaporare con del buon vino rosso. Si aggiunge pomodoro e un po’ di brodo per portare a temine la cottura: si impieghera­nno circa tre ore a fiamma bassa, fino a quando la carne risulterà tenera e morbida ed il sughetto sarà abbastanza ritirato. Si serve in tegami di coccio, con del pane abbrustoli­to ed uno filo di olio Evo».

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Manuel Becchi (La Taverna del Vin Vino)
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Alessandro Giampieri (Trattoria Da Nerone)

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