La vita spericolata di Filippo Lippi, il pittore seduttore
Provarono a farlo frate, ma amava tanto le donne che ebbe due figli da una monaca, la giovane Lucrezia Amatissimo e protetto da Cosimo I, perse la mamma che era ancora bambino e imparò l’arte da Masaccio
Ci sono uomini che riescono a farsi amare. Ma non bisogna credere che vengano al mondo pieni di qualità: nascono nudi e ridicoli come tutti. È solo grazie a enormi fatiche e alla coerenza dei loro sogni che raggiungono la pienezza del loro valore, nelle scienze o nelle arti. Uomini simili, se anche hanno qualche vizio, se anche fanno qualcosa di brutto, portano tra noi una tale bellezza che trasformano l’avarizia dei principi in generosità, e fanno evaporare l’odio: così che dove un altro verrebbe punito loro vengono premiati.
Filippo Lippi rimase orfano molto presto. Andò a vivere con la zia, Monna Lapaccia: per lei l’arrivo del bambino fu una grandissima calamità, così quando lui ebbe otto anni lo spedì nel convento del Carmine dove si fece frate. Lo studio non faceva per lui, era troppo agitato, si distraeva continuamente, imbrattava con disegnini vari le carte degli altri frati. Il priore invece di fargliela pagare gli disse: «Va bene. Se non puoi star fermo allora dipingi».
In quegli anni Masaccio stava affrescando la cappella Brancacci. Filippo lo guardava. Non aveva mai visto niente di simile. Masaccio, giovanissimo, tirava fuori figure del tutto nuove, senza che nessuno sapesse da chi aveva imparato. L’incanto che questo spettacolo misterioso produsse nel suo animo non si può dire con le parole. Ci andava tutti i giorni. Si sentiva placato e al tempo stesso spinto a fare altrettanto. C’erano molti altri giovani che si esercitavano nella pittura ma lui li superò tutti e, dopo la morte prematura del maestro, dissero che lo spirito di Masaccio era entrato nel suo corpo. Tutti lo elogiavano. Allora lui, che era un tipo impulsivo, a diciassette anni lasciò il convento.
Un giorno se ne andava in giro per l’Adriatico, verso Ancona, sopra una barchetta insieme a certi amici, per divertimento. Furono catturati dai pirati saraceni, messi in catene e portati in Africa come schiavi. All’inizio fu terribile. Remò. Zappò. La prigionia durò un anno e mezzo. L’arte sembrava perduta per sempre. Una sera che era più morto che vivo, a Filippo venne voglia di raffigurare il padrone, il grande corsaro Abdul Maumen: senza dire una parola raccolse dal fuoco un carbone spento e gli fece il ritratto, vestito alla moresca, a figura intera, su un muro bianco. A tutti parve un miracolo, perché da quelle parti nessuno disegnava o dipingeva. Il padrone fu tanto colpito dalla sua arte che decise di liberare lui e i compagni. Filippo operò davvero un miracolo: invece di supplizio e morte ottenne libertà e affetto. Gloria alla forza che rende possibili simili eventi.
Tornato a Firenze lavorò per Cosimo de’ Medici, diventarono amicissimi. Però era così libidinoso, dicono, che se vedeva una donna che gli piaceva non pensava ad altro, perdeva la concentrazione, impazziva. Quando si smarriva in questi suoi appetiti lavorava poco o nulla. Ed accadeva spesso. Così una volta Cosimo, che gli voleva bene ma non ne poteva più, disse «Ci sono troppe donne in giro» e lo rinchiuse in casa, per fargli combinare qualcosa. Lui dopo due giorni, spinto dal furore amoroso, si calò dalla finestra con un lenzuolo e per molti giorni si dedicò ai suoi piaceri. Cosimo invece di punirlo si pentì di averlo rinchiuso esponendolo così, senza volerlo, ai pericoli della fuga. Da allora in poi lo lasciò del tutto libero di inseguire i suo desideri. «Ci sono ingegni che sono forme celesti e non asini vetturini» concluse.
Una volta gli dissero che le mani che dipingeva erano difettose, allora lui per un po’ le nascose sotto i vestiti, o le rese quasi invisibili con altri trucchi. Poi si stufò e si disse: «Non posso fuggire di fronte ai miei limiti». Realizzò mani magnifiche. Nel 1456 si trasferì a Prato, un posto vicino a Firenze. Doveva affrescare il convento di Santa Margherita. Mentre era lì che lavorava gli cascò l’occhio su una monaca giovanissima, Lucrezia Buti. A forza di insistere ottenne dalle monache il permesso di farle il ritratto. Lei in un momento di intimità gli sussurrò che non aveva tutta questa voglia di fare la monaca. «Figurati io di fare il frate» rispose lui. Nel giorno in cui si portava in processione la cintola della Madonna, reliquia importantissima a Prato, approfittando della confusione Filippo e Lucrezia scapparono insieme. Fu uno scandalo enorme per le monache. Il padre della ragazza non fu mai più allegro. Ma Filippo era così innamorato delle qualità di Lucrezia che un anno dopo nacque il loro figlio, Filippino, destinato anche lui a diventare un grande pittore. Comunque Filippo non era solo sorprendentemente libidinoso. Conobbe i molti aspetti della passione e seppe fonderli in una sola figura, che si sottrae alla voracità del tempo. Il volto dolcissimo e sognante di Lucrezia compare nella Salomè del duomo di Prato e in molte immagini della Madonna dipinte da Filippo (per esempio la Madonna oggi agli Uffizi, detta Lippina) e racconta tutta la storia, a chi sappia ascoltarla con gli occhi. Il rapimento di una monaca avrebbe potuto costargli veramente caro. Erano tempi in cui non si scherzava. Ma anche stavolta fu perdonato dai più. Di sicuro da Cosimo dei Medici. Il Papa sciolse dai voti i due amanti, che a quel punto avrebbero potuto sposarsi. Filippo disse «grazie, veramente grazie» ma non si sposò, aggiungendo che voleva disporre dei suoi appetiti come gli pareva.
Nel duomo di Prato dipinse affreschi che è impossibile guardare senza commuoversi: contengono i sentimenti per sempre. Ebbe l’idea di fare le persone più grandi del normale. Sollecitò l’animo della gente a uscire da quella semplicità che più che antica era vecchia. Con la luce del suo valore oscurò ciò che ci poteva essere di criticabile in lui. Fu amico delle persone allegre, seppe vivere. Aiutò molti artisti a fiorire, per esempio Sandro Botticelli. Dette tutto se stesso, sempre, con straordinaria generosità, soprattutto nelle cose dell’amore, infatti non smise mai di dilettarsi in queste faccende. Cosimo dei Medici lo mandò a dipingere a Spoleto, insieme con fra’ Diamante, pittore suo assistente, assai lippesco, che lo seguiva sempre. A Spoleto lavorò molto bene ma non terminò gli affreschi perché morì. Fu avvelenato, dicono, perché con questi suoi beati amori aveva esagerato. E questa è l’unica volta in cui non fu perdonato.
3. Continua. Le prime due puntate sono uscite il 13 e il 27 novembre 2016
Se vedeva una donna che gli piaceva non pensava ad altro e perdeva tutta la concentrazione