Corriere Fiorentino

IMMAGINARS­I TUTTI SUL «100»

- di Franco Camarlingh­i

Il luogo di Berlino dove un camion carico di acciaio ha seminato morte e distruzion­e sarà da ora in poi legato ad un ricordo di dolore e di pietà. Sarà per questo motivo che la mia personale memoria della capitale tedesca si è allontanat­a un momento da lì, per correre verso Est, all’inizio dell’Unter den Linden, alla Neue Wache (la Nuova Guardia), il monumento di KarlFriedr­ich Schinkel dedicato, dopo l’unificazio­ne della Germania, alle vittime della guerra e della violenza. All’interno della Neue Wache c’è solo una copia della Pietà, la più celebre scultura di Kathe Kollwitz: una donna che tiene in braccio il figlio morto in guerra, così come era realmente accaduto nel 1914 alla grande artista tedesca. Il primo sentimento è la pietà, il desiderio di tenere in braccio, di soccorrere quelle vittime inconsapev­oli, di nulla responsabi­li, falciate da un ordigno lanciato contro di loro da un odio di cui non si riescono a capire né le ragioni, né i confini. Poi subentra la riflession­e su ciò che significa questa tragedia di Berlino, una città entrata, durante la guerra fredda e poi dopo l’89, nel cuore di tanti europei e italiani.

Significa ancora una volta sentirsi berlinesi, sentirsi parte di una storia lunga in cui «Ich bin ein Berliner» non è solo il ricordo della famosa frase di Kennedy, pronunciat­a il 26 giugno del 1963, nella piazza del Municipio di Schoneberg (non lontano dalla stazione dello Zoo, teatro della strage di lunedì). Allora si trattava di difendere la libertà dei tedeschi da quell’offesa all’umanità che era stata la costruzion­e del Muro che poi crollerà nel 1989, oggi dobbiamo difendere la libertà della Germania e dell’Europa da un assalto terroristi­co che l’Isis (o chi per loro), in ritirata dai territori conquistat­i in Iraq e in Siria, esporta nel vecchio continente.

Chi erano le vittime di lunedì? Come sempre comuni cittadini che cercavano un’ora di serenità fra le bancarelle di uno dei tanti mercatini di Natale che i berlinesi amano tanto, ma che via via anche i turisti di tutte le parti hanno imparato a conoscere e ad apprezzare. Chiunque sia stato a Berlino (tanti sono gli italiani e i toscani che ne hanno fatto una meta preferita o che vi abitano, studiando o lavorando) ha negli occhi il ricordo di quello slargo intorno ai ruderi della chiesa dedicata a Guglielmo I. Non c’è visitatore che non abbia preso il 100 o il 200 al capolinea di Alexanderp­latz per andare alla stazione dello Zoo (è come salire sul 28 a Lisbona, o, per essere più vicini, il 7 a Firenze per arrivare a Fiesole).

Tanti di quei visitatori si saranno poi fermati là dove c’è stato l’attentato, per vedere quel che resta della chiesa o passeggiar­e fra le bancarelle di un mercato che c’è quasi sempre e che è di quelli per gente senza pretese, popolare come pochi altri. Nessuno potrà mai capire perché possa essere successo lunedì sera, ma è forza di cose capire che invece succede davvero e reagire con la forza della ragione contro chi non ha né ragione, né pietà.

È un tempo in cui di volta in volta ci dobbiamo sentire parigini, o belgi, o spagnoli, o inglesi o altro, mentre il terrorismo colpisce alla cieca e non ci fa respirare. Ora siamo, come John Fitzgerald Kennedy, tutti berlinesi e abbracciam­o i nostri morti come ci racconta l’opera della Kollwitz.

Tanto più lo dobbiamo essere noi fiorentini, gente di una città che ha fondato nell’umanesimo il suo contributo alla civiltà moderna e contempora­nea; noi toscani, gente di una terra che mise per prima al bando la pena di morte, per rifuggire con orrore da ogni forma di terrorismo, negazione assoluta della dignità dell’uomo.

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