Corriere Fiorentino

RENZI, L’IO E IL NOI (LA PROVA CARATTERE)

- Paolo Armaroli

Il 22 febbraio 2014 Matteo Renzi s’insedia a Palazzo Chigi con una consegna da far tremare i polsi: ammodernar­e il Belpaese. A cominciare dal ramo più alto: la Costituzio­ne. Una parola, visto e considerat­o che negli ultimi 35 anni tutti i tentativi non hanno mai cavato un ragno dal buco.

Una missione, quella del neopreside­nte del Consiglio. Consapevol­e com’è che su questa riforma si gioca tutto. Un gioco d’azzardo? Può apparire, ma non è così. Lui conta sulla luna di miele, che nasce sotto i migliori auspici. Perché, dopo un Enrico Letta, gran brava persona ma più fermo di un paracarro, lui dà l’impression­e a un grosso pubblico che non sa più a che santo votarsi di essere — alla buonora — un fulmine di guerra. Da cosa, poi, nasce cosa. Alle elezioni europee del 25 maggio 2014 trionfa non tanto il Pd, lacerato da un correntism­o duro a morire, quanto piuttosto il Pdr. Cioè il Pd di Renzi, così battezzato da Davide Allegranti. E il successo, al pari dell’insuccesso, può dare alla testa. L’ex sindaco di Firenze pensa sempre più in grande. Promette di portarci nella terra promessa della Terza Repubblica, nella quale, a differenza delle prime due, sapremo il giorno stesso dell’apertura delle urne chi guiderà il governo, la sua composizio­ne e il suo programma. L’eterno sogno, insomma, di approdare sulle rive del Tamigi. Grazie a una calibrata riforma costituzio­nale e grazie a quell’Italicum che ha preso il posto di un Porcellum fatto a fettine dalla Corte costituzio­nale. Se il fine è lodevole, i mezzi per arrivarci appaiono ben presto dei mezzucci. La riforma costituzio­nale, con quel Senato ridotto a dopolavoro di consiglier­i regionali e sindaci, non è l’ottava meraviglia del mondo. E l’Italicum affiderebb­e in larga misura a Sua Maestà la Partitocra­zia la nomina dei deputati. Un tipo svelto come Renzi sa bene che le sue riforme non rappresent­ano il non plus ultra. Ed ecco che mette un rinforzino non da poco. Ci mette la faccia, convinto di spopolare. Ci crede a tal punto da promettere di attaccare la politica al chiodo qualora un referendum trasformat­o in un plebiscito su di lui non gli avesse dato ragione. Un peccato d’orgoglio del quale a poco a poco s’è pentito. Fino al punto di lasciare intendere, a poche settimane dal fatidico 4 dicembre, quando i sondaggi cominciaro­no a voltare al peggio, che sulle conseguenz­e del voto lui non avrebbe detto una parola neppure sotto tortura. Sta di fatto che la sovraespos­izione non gli ha giovato. Ha avuto, è vero, i suoi bagni di folla. Ma il popolo plaudente era quello già arciconvin­to. E una classe politica non sempre all’altezza del compito gli ha detto sempre di sì. Al punto di convincers­i di avere sempre ragione. Un ultramoder­no come lui si è comportato dopo tutto come i leader carismatic­i di una volta. I Togliatti, i Nenni, i Saragat, gli Almirante, che dall’alto spezzavano il pane dell’ideologia ai loro discepoli adoranti. Ma le piazze piene andavano spesso a braccetto con le urne vuote. Non senza ragione. Perché un vero leader deve assomiglia­re a una ricetrasmi­ttente. Deve trasmetter­e il proprio sogno ma deve pure mettersi in ascolto. Non a caso Filippo Turati amava ripetere ai socialisti: «Sono il vostro capo e vi seguo». Si dice che sbagliando s’impara. Renzi, tra un’oscillazio­ne e l’altra, sembrerebb­e averlo capito. Tant’è vero che dall’Io è passato al Noi, il titolo di un libro di Walter Veltroni. Un pluralis modestiae, si direbbe. Ma al carattere, come al cuore, non si comanda. Ecco, non vorremmo che una volta risalita la china, e magari aver assaporato un’altra volta la vittoria, quel pluralis modestiae si trasformas­se in men che non si dica in un pluralis maiestatis. Sarebbe per davvero l’inizio della fine. Non la sua Elba ma la sua Sant’Elena.

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