RENZI, L’IO E IL NOI (LA PROVA CARATTERE)
Il 22 febbraio 2014 Matteo Renzi s’insedia a Palazzo Chigi con una consegna da far tremare i polsi: ammodernare il Belpaese. A cominciare dal ramo più alto: la Costituzione. Una parola, visto e considerato che negli ultimi 35 anni tutti i tentativi non hanno mai cavato un ragno dal buco.
Una missione, quella del neopresidente del Consiglio. Consapevole com’è che su questa riforma si gioca tutto. Un gioco d’azzardo? Può apparire, ma non è così. Lui conta sulla luna di miele, che nasce sotto i migliori auspici. Perché, dopo un Enrico Letta, gran brava persona ma più fermo di un paracarro, lui dà l’impressione a un grosso pubblico che non sa più a che santo votarsi di essere — alla buonora — un fulmine di guerra. Da cosa, poi, nasce cosa. Alle elezioni europee del 25 maggio 2014 trionfa non tanto il Pd, lacerato da un correntismo duro a morire, quanto piuttosto il Pdr. Cioè il Pd di Renzi, così battezzato da Davide Allegranti. E il successo, al pari dell’insuccesso, può dare alla testa. L’ex sindaco di Firenze pensa sempre più in grande. Promette di portarci nella terra promessa della Terza Repubblica, nella quale, a differenza delle prime due, sapremo il giorno stesso dell’apertura delle urne chi guiderà il governo, la sua composizione e il suo programma. L’eterno sogno, insomma, di approdare sulle rive del Tamigi. Grazie a una calibrata riforma costituzionale e grazie a quell’Italicum che ha preso il posto di un Porcellum fatto a fettine dalla Corte costituzionale. Se il fine è lodevole, i mezzi per arrivarci appaiono ben presto dei mezzucci. La riforma costituzionale, con quel Senato ridotto a dopolavoro di consiglieri regionali e sindaci, non è l’ottava meraviglia del mondo. E l’Italicum affiderebbe in larga misura a Sua Maestà la Partitocrazia la nomina dei deputati. Un tipo svelto come Renzi sa bene che le sue riforme non rappresentano il non plus ultra. Ed ecco che mette un rinforzino non da poco. Ci mette la faccia, convinto di spopolare. Ci crede a tal punto da promettere di attaccare la politica al chiodo qualora un referendum trasformato in un plebiscito su di lui non gli avesse dato ragione. Un peccato d’orgoglio del quale a poco a poco s’è pentito. Fino al punto di lasciare intendere, a poche settimane dal fatidico 4 dicembre, quando i sondaggi cominciarono a voltare al peggio, che sulle conseguenze del voto lui non avrebbe detto una parola neppure sotto tortura. Sta di fatto che la sovraesposizione non gli ha giovato. Ha avuto, è vero, i suoi bagni di folla. Ma il popolo plaudente era quello già arciconvinto. E una classe politica non sempre all’altezza del compito gli ha detto sempre di sì. Al punto di convincersi di avere sempre ragione. Un ultramoderno come lui si è comportato dopo tutto come i leader carismatici di una volta. I Togliatti, i Nenni, i Saragat, gli Almirante, che dall’alto spezzavano il pane dell’ideologia ai loro discepoli adoranti. Ma le piazze piene andavano spesso a braccetto con le urne vuote. Non senza ragione. Perché un vero leader deve assomigliare a una ricetrasmittente. Deve trasmettere il proprio sogno ma deve pure mettersi in ascolto. Non a caso Filippo Turati amava ripetere ai socialisti: «Sono il vostro capo e vi seguo». Si dice che sbagliando s’impara. Renzi, tra un’oscillazione e l’altra, sembrerebbe averlo capito. Tant’è vero che dall’Io è passato al Noi, il titolo di un libro di Walter Veltroni. Un pluralis modestiae, si direbbe. Ma al carattere, come al cuore, non si comanda. Ecco, non vorremmo che una volta risalita la china, e magari aver assaporato un’altra volta la vittoria, quel pluralis modestiae si trasformasse in men che non si dica in un pluralis maiestatis. Sarebbe per davvero l’inizio della fine. Non la sua Elba ma la sua Sant’Elena.