Ciak si gira, a manovella
Gli inizi del Novecento, le smorfie del viso davanti a una macchina mai vista: la cinepresa La storica Cristina Jandelli racconta come nacquero i «primi piani», gli attori e le star del cinema
Una lunga ricerca che si sviluppa come una storia. Una storia che racconta come alcune persone, casualmente, alla fine del XIX secolo, si sono prestate a posare davanti a una macchina da presa posta su un cavalletto e azionata da una manovella a mano: sorridere, fare una smorfia, darsi un bacio. Furono eventi eccezionali perché poi qualcuno divenne un attore. E i più abili, star. L’attore in primo piano (edito da Marsilio), il nuovo libro della studiosa fiorentina Cristina Jandelli (storica del cinema tra le massime esperte in Italia di recitazione cinematografica) parte con un’azione nuda, non diversa da quella che i borghesi di fine Ottocento compivano per immortalarsi in un dagherrotipo — una posa — ma in seguito questo minimo fare (bere una bottiglia di birra o di veleno) si sviluppa fino a trasformarsi in un primo piano, che diventerà poi una delle figure retoriche più importanti del linguaggio cinematografico.
Il volume ne analizza appunto la nascita: «Il primo piano è l’inquadratura chiave degli affetti di ogni spettatore — spiega Jandelli — e possiede una natura diversa da quella della fotografia perché, alla posa dei borghesi agiati che si aggiustavano i baffi prima di sfoggiare un bel sorriso, il cinema aggiunge il movimento. E con il movimento arriva l’azione scomposta, la smorfia del volto, i modi incomprensibili dell’esibirsi tanto per far scalpore. In un momento successivo il gesticolare senza parole diventa un atto cosciente, addirittura un gesto autopromozionale, e soprattutto una modalità seriale di ripresa meccanica. È questo il momento in cui nasce l’attore cinematografico». Questo strano «tipo» della modernità industriale si fregia della stessa qualifica degli attori di teatro, e cioè di chi, negli stessi anni, calcava i palcoscenici grazie a una voce possente, una corretta dizione, l’arte oratoria prestata ai copioni teatrali, portata di città in città con la fatica e il peso delle repliche, dei digiuni imposti dal viaggiare: «Ma il cinema registrava solo immagini, non suoni, e non aveva bisogno di queste competenze. L’attore cinematografico veniva assoldato per poche pose in studio, prendeva i soldi e poi scappava chissà dove. La sua “effigie mobile” viaggiava per lui senza voce».
Non è proprio la storia dei selfie o delle gif animate che ci ipnotizzano oggi sui vari social network, ma le somiglia: «Una schiera di dilettanti, muti ma denominati “attori” come i professionisti teatrali, all’inizio del Novecento si accalcava davanti ai teatri di posa, chiedeva pane e un costume da indossare, questo racconta Pirandello ne I quaderni di Serafino Gubbio operatore e la storia è quella seriale dei primi piani di attori inconsapevoli girati da mani che muovevano febbrilmente manovelle in centri produttivi improvvisati. La fama arriva dopo alcuni decenni, ma investe solo chi sa ragionare davanti all’occhio imperscrutabile del cineoperatore, chi si sa imporre al suo dominio, alla dittatura del meccanico scrutare dell’obiettivo, un modo per comunicare le insondabili profondità dell’essere umano: minaccia, paura, oscenità, orrore, amore, pietà».
Ma questi strani «esseri» sono ancora fra di noi? «Certo! Basta digitare un titolo, fra i tanti citati nel libro, per rivederli in azione — risponde la studiosa — ci sembrano buffi, patetici, incomprensibili, può darsi ci facciano ridere, ma in ogni caso sono ancora lì, transitati silenziosamente dall’età analogica all’era digitale. E finora nessuno ha pensato di occuparsi organicamente di loro. Che non erano artisti, non necessariamente». La storia del cinema però ci ha trasmesso le gesta dei più grandi: le dive del muto italiano, Rodolfo Valentino, Chaplin e Keaton, Lillian Gish (l’attrice che inventò il gesto di tirarsi su gli angoli delle labbra per simulare il sorriso e compiacere un padre picchiatore, ma solo nella finzione orchestrata da Griffith, primo grande regista americano) e le altre, donne di cui il cinema ha immortalato la sofferenza negli anni che precedettero le richieste di emancipazione. Il libro si chiude infatti sull’ultimo film interpretato da Ruan Lingyu, la massima star cinese del periodo muto, che fu una donna libera di Shangai e ha una storia incredibile: «Come le sventurate eroine interpretate sullo schermo, fu schiacciata dalla società confuciana da un lato ed emarginata dall’altro dal nascente comunismo per i suoi costumi dissipati: perciò optò per il suicidio come migliaia di altre giovani donne, belle e giovani come lei nella Cina dei primi anni Trenta. Private in modo irreparabile di un futuro, le altre ragazze non hanno lasciato traccia del loro passaggio e invece Ruan Lingyu, l’attrice cinematografica cui il libro dedica la copertina, sì. Digitare “New Women” seguito dal suo nome su Youtube per credere. E far ricominciare a recitare».
Albori La fama arriverà solo dopo alcuni decenni, ma non investirà tutti i pionieri