Il compagno di banco? Un detenuto
L’alberghiero nella Fortezza, una seconda occasione «Stare con questi giovani ci fa sentire migliori»
C’è l’alberghiero Niccolini fuori che raccoglie la gran parte dei ragazzi di Volterra e dell’Alta val di Cecina. E c’è l’alberghiero Niccolini dentro, dietro le sbarre, oltre il metal detector. Quello dei ragazzi che avevano mollato gli studi. Francesca, Giusy, Jacopo, Daniela e Margherita si erano arresi «per la troppa competizione che c’è fuori», dice un agente penitenziario.
Perché è più sicuro lavorare la mattina al bar del babbo, o in trattoria. Oppure perché erano caduti in quelle piccole trappole tipiche della loro età, delle compagnie, della provincia. Ora ogni pomeriggio percorrono una ripida salita che d’inverno solo il detenuto «Capitan Ventosa» — per il suo impermeabile giallo choc — riesce a sghiacciare: si chiama Paolo, tra due mesi sarà fuori. «Ispetto’ è l’ultimo Natale insieme, le faccio gli auguri. E poi? Una volta a casa?...». Anche lui come gli altri detenuti forse è un assassino, un trafficante, un rapinatore, anche se oggi ha la faccia da innocente. Prima di entrare nel carcere di Volterra insieme ai ragazzi dell’alberghiero ci pensi. Qui siamo in una casa di reclusione, tra i «finepenamai», tra detenuti non di passaggio. Questa è la loro casa.
Ma questo è anche il primo carcere al mondo dove dal 2012 i ragazzi esterni vengono a studiare assieme ai detenuti. Prima di entrare, di oltrepassare il cartello «State Prison» (un avvertimento peri turisti), «quelli che si sono dati una seconda chance in carcere» spengono il cellulare. Fanno la salita, abbandonano in una cassetta di sicurezza ogni cosa che li possa mettere in contatto con l’esterno. L’agente nel casotto all’ingresso segna presenze e assenze come un normale bidello. Francesca, Giusy, Jacopo, Daniela e Margherita passano prima sotto un metal detector, poi serrature e cancelli. Siamo in carcere, ma è tutto aperto.
La fortezza medicea di Volterra, con i suoi 160 detenuti, si aprirà ancora di più. Entro qualche mese, dopo lunghi lavori di restauro, restituirà alla città la Rocca Nuova, detta il Mastio, costruita da Lorenzo il Magnifico, la torre dove furono imprigionati quelli della congiura dei Pazzi. Riaprirà alla città, sarà visitabile, annuncia raggiante la direttrice Maria Grazia Giampiccolo, «entro la fine dell’inverno». Un altro pezzo di Fortezza che torna a Volterra, un’altra apertura, dopo la compagnia teatrale di Armando Punzo (che quella compagnia vorrebbe renderla stabile); dopo l’apertura di una sartoria dove i detenuti confezionano pigiami e grembiuli per i detenuti di altre carceri o bellissime borse e tappeti in patchwork che chissà, magari si riusciranno a vendere online; e dopo le «Cene Galeotte» con i grandi chef e i detenuti in cucina che dal 2006 con il sostegno di Unicoop Firenze, ancora su intuizione della direttrice Giampiccolo, hanno messo a tavola dietro le sbarre oltre 12 mila persone (incassi sempre in beneficenza, quest’anno il ricavato della cena di Natale servirà per costruire una scuola a Norcia) e aperto il varco alla scuola per i «civili», come li chiamano gli agenti.
Nelle celle con l’intonaco verde acqua i ragazzi della seconda opportunità vengono a cercare dentro risposte da spendere fuori. Lo stesso obiettivo — il diploma, l’anno prossimo ci saranno i primi diplomati del quinquennio in carcere — dei compagni di banco-detenuti che seguono le lezioni con loro e hanno vinto la battaglia contro il vortice dell’ozio, della noia, dei giorni tutti uguali. La vera maledizione dei carcerati.
In classe, una quarta, la professoressa Paola Albano tiene la sua lezione di diritto e tecnica delle imprese ricettive. Con Francesca, Giusy, Jacopo, Daniela e Margherita ci sono Assan, una cinquantina d’anni e David, trenta a malapena. Seguono, intervengono, prendono appunti. Ognuno di loro ha un astuccio sul banco, un quadernone. Sono ventiquattro i ragazzi che tutti i giorni entrano in carcere, con i loro docenti, per frequentare l’alberghiero. Trentacinque i detenuti. Molti di loro hanno già trovato un posto che lo attende quando uscirà. Altri sono «articolo 21», quelli cioè che hanno avuto il permesso per lavorare fuori alcune ore del giorno. Quasi tutti in locali e ristoranti di Volterra. Assan, un interno, spera: «Voglio tornare a Torino, ho già un’attività, mi piacerebbe crescere nel mio lavoro». Margherita, un’esterna, la mattina è in trattoria il pomeriggio in carcere. È poco più che maggiorenne, fuori aveva mollato, qui ha ricominciato a studiare. «Con gli “interni” c’è complicità, ci dicono sempre di non sbagliare più, di non commettere i loro errori». Un’ora a seguire la lezione e ti dimentichi che tra quei ragazzi ci sono «finepenamai», assassini, rapinatori, trafficanti. Persone che hanno commesso sbagli enormi. Che hanno fatto soffrire e che ora stanno restituendo qualcosa ai loro compagni di banco che vengono da fuori e anche a loro stessi. La lezione corre svelta.
Poi, di colpo, il carcere viene a prenderci. Ha il volto di un giovane agente. Alto, ben piazzato, pallido, con le occhiaie. È arrivato da poco da Torino, sembra portare ancora i segni del carcere giudiziario, i carceri come Sollicciano, quelli dove si entra e si esce. Dove i detenuti
Regole Gli studenti lasciano nelle cassette di sicurezza quello che li può mettere in contatto con l’esterno
non devono costruire niente, non hanno bisogno di costruirsi nemmeno una quotidianità. Le pene sono più brevi, pochi mesi o giorni per molti. E allora chissenefrega delle giornate tutte uguali. Chissenefrega degli altri, detenuti e secondini. I rapporti non contano, conta sopravvivere al meglio che fra poco si esce. Per gli agenti la routine invece è sempre quella, la pena non cambia. Magari hai la fortuna di riuscire a farti trasferire qui. Sono tante le domande per venire a Volterra, sia di detenuti che di agenti. Il ragazzo con la divisa e le occhiaie ha un accento campano, dietro quasi non si vede ma si sente una voce decisa. È l’accento sardo e sicuro dell’ispettore Alberto Carta, da 25 anni a Volterra, da 35 agente penitenziario. Ecco il carcere che vuole raccontarsi, impaziente. Come i detenuti, che qui passeggiano liberi per i corridoi con le celle aperte fino a sera: «Dotto’ poi si fermi da me avimmo’ da parla’ anche di noi». Uno di loro entra nella cella-ufficio dell’ispettore Carta, lo ringrazia «per quella cosa». «Vede, queste sono piccole soddisfazioni», dice lui compiaciuto. Mi sento quasi vittima di uno sketch programmato. Non è così, ma anche se lo fosse, se il rapporto fra «secondini» e detenuti fosse solo di convenienza, cosa ci sarebbe di male?
«Qui sono io il primo da cui devono passare per avere qualcosa. Il primo filtro per un permesso, per un cambio di mansione, quello che ascolta le loro richieste anche sindacali. Nessun regalo, nessuna concessione. Ma pieno riconoscimento di quelli che sono i loro diritti — dice l’ispettore Carta — Vuole che glielo dica? D’accordo, i detenuti sono “brutti, sporchi e cattivi”, proprio come nel film di Scola. Ma io preferisco quelli che hanno le palle, quelli che vogliono mettersi in gioco. E lo capisco subito fin dal primo colloquio. Io posso offrirvi questo: la scopa, poi la cucina e via via salendo la sartoria. Poi c’è la scuola da geometri, l’alberghiero. Loro qui hanno l’opportunità di mettersi in gioco, di restituire. Qui la mattina si lavora e il pomeriggio si studia. Su 160, 140 lavorano, guadagnano (anche se le mercedi sono ferme da anni). Nessuno passa il tempo a fumare nei corridoi o in branda». Quando Carta arrivò a Volterra «proprio in questo corridoio, i brigatisti rossi e neri si davano le coltellate. Oggi abbiamo già otto detenuti diplomati all’alberghiero nel triennio. Qui un ergastolano capisce che la vita continua, che ha perso molto, ma non tutto».
Qui capisci che le carceri sono cambiate. «Quando ero a Poggioreale — racconta un vecchio agente — portavo il completo stirato a Raffaele Cutolo, o’ professore. Lui l’esercito, la “Nuova camorra organizzata”, se lo costruì in carcere. Un giorno mi disse: “vede dotto’, un mio compare è ministro a Roma, e io sono qui. Comando da qui”. Oggi il problema sono i musulmani che si radicalizzano nelle carceri, questa è la nuova emergenza, più della criminalità organizzata. Stanno fra di loro, non hanno rapporti con gli altri, il muro che li divide spesso è impenetrabile».
Gli agenti raccontano storie di ieri e di oggi, di Volterra e di altre carceri. Storie atroci, ricordi di quando sulle mura della Fortezza c’era l’esercito, c’era l’Armeria. Storie di galera e di detenuti. Per Paolo, che ha il cappellino di Babbo Natale in testa e gli antipasti della Cena galeotta in mano, Volterra è stata un colpo di fortuna: quando fu stato estradato dal Brasile fece domande su domande; voleva arrivare nella Fortezza Medicea anche per avvicinarsi a casa, alla sua Livorno dove lo aspetta un figlio che oggi ha 15 anni. Le ore in classe coi ragazzi di fuori lo aiutano «a sentire meno nostalgia di lui — racconta — Stare con questi ragazzini ci fa sentire migliori, per noi è una grande responsabilità e un grande premio. Ci confidano i loro problemi, noi cerchiamo di dargli qualche consiglio. Non ci sentiamo abbandonati». L’ispettore Paolo Iantosca sembra ripetere lo stesso identico concetto: «A noi agenti chi ce lo fa fare secondo lei di assumerci un rischio del genere? Accanto a ragazzini che hanno avuto problemi e cercano una seconda possibilità ci sono assassini, sì anche assassini, detenuti, che sono persone che diventano migliori. Che ci fanno diventare migliori. Crediamo nel progetto». Passa un detenuto: «Lo sa di quante parole è composto il vocabolario di noi “interni”? Duecento parole, non di più e sempre le stesse: rapina, permesso, lametta, mercedi... Sono stati i ragazzi ad allargarci la mente. E la bocca».
Nella Fortezza sono le sei di sera. Fervono i preparativi per la Cena galeotta con lo chef Nicola Schioppo, del ristorante fiorentino «Cipolla Rossa». Per lui è la seconda volta. La prima, appena messo piede nelle cucine del carcere, nude, semplici, senza abbattitori o frullatori, non la dimenticherà mai. I detenuti chiarirono subito le cose: «Sì ok, tu sei il grande cuoco, ma questa è casa nostra...». Qui non siamo a Masterchef, non ci sono telecamere o premi. Non c’è da farsi belli. È un ritorno alle origini, al trito del soffritto fatto a mano (e non a caso qualche chef si è tirato indietro). E alla fine di ogni servizio gli agenti contano e ricontano il numero di forchette e coltelli. Niente e nessuno deve mancare all’appello. Siamo in carcere. «Capitan Ventosa», il detenuto con l’impermeabile giallo, esce a sghiacciare la ripida discesa. I ragazzi devono uscire. Il carcere non è muto. Le loro voci rimbombano nei corridoi. Schiamazzi, risate, urla. L’ispettore Carta ha un sussulto. «Che succede?». Vecchi riflessi condizionati di un «secondino».