Firenze mia
Lo scrittore Aiolli: «Il mio sogno è un Arno verde»
Valerio Aiolli è uno scrittore fiorentino, un grande scrittore, ma soprattutto è un amico. Il suo ultimo romanzo è Lo stesso vento (Voland), una storia intensa che attraversa i decenni e coinvolge personaggi diversi, legati tra loro soltanto da un oggetto che passa di mano in mano. Un libro bellissimo, magico, una scrittura capace di rendere vive le emozioni. Un libro che consiglio a tutti. Incontro Valerio alla libreria Todo Modo di Firenze, e ci sediamo a un tavolino. Prendiamo un the circondati da migliaia di libri, e per un attimo penso che vorrei averli letti tutti.
Ciao Valerio, parliamo un po’ della nostra città. Cos’è che ti manca di più della Firenze della tua infanzia?
«Non sento una forte nostalgia per la Firenze di quando ero bambino, o ragazzo. La percepivo come una città troppo grande per essere accogliente e troppo piccola per darmi il brivido pericoloso ma eccitante dell’anonimato vero, quello delle metropoli. Mi sarebbe piaciuto essere nato a Parigi, o a Londra. Anche la parlata in vernacolo mi suscitava un certo distacco, il sospetto di un compiacimento che non mi apparteneva fino in fondo. Però a pensarci bene una cosa che mi colpiva molto in quegli anni, e che poi piano piano si è persa e che mi manca (nel bene e nel male), era la forte specificità dei quattro quar- tieri del centro. Sono nato in una Firenze ancora un po’ pratoliniana, dove i ragazzi di Santa Croce avevano un gergo, dei giochi, dei modi di provocarsi e di sostenersi completamente diversi da quelli di San Frediano, San Giovanni, Santa Maria Novella. Le botteghe erano diverse, l’atmosfera che si respirava nei cinema era diversa, era diverso l’atteggiamento delle persone. C’erano confini invisibili, e c’era da imparare a tenerne conto. Quelle piccole città nella città, seppure a volte mi incutevano timore, davano al centro un colore cangiante e una forza mutevole che ora non ritrovo più. Questo sì, mi manca».
Ricordi un aneddoto personale che caratterizza bene quell’epoca?
«La prima volta in cui sono andato al cinema con gli amici, senza i genitori. Verso i dodici anni conobbi un gruppo di ragazzi di Santa Croce, cominciai a frequentarli. Andavano al cinema da soli, un giorno sì e un giorno no, nelle sale di terza visione: io con i miei mi ero fermato alla prima o alla seconda, dove si stava comodi e tutti si comportavano “bene”. Una volta mi unii a loro. Il cinema era l’Alfieri, il film un western. Esisteva già l’Universale, di cui molto si è parlato, ma io l’avrei scoperto solo più tardi. L’Alfieri era più o meno la stessa cosa. Sedie di legno duro, gente che si alzava durante la proiezione, commenti a voce alta, richiami, fischi. All’intervallo, comparve l’omino con la cassetta dei gelati appesa al collo. Era più grande di lui, faceva fatica a portarla in giro dove lo chiamavano. Ma, due volte su tre, dopo avergli fatto fare tutto il corridoio in leggera salita, la richiesta urlata a squarciagola era qualcosa come: “Che ce l’hai la minestra di pane?”. L’omino scuoteva il capo e ripartiva verso qualche altra chiamata. Tutti ridevano a squarciagola. Io ero sbalordito. Era come essere capitato in un paese straniero. Mi sentivo respinto e attratto da quell’energia un po’ bestiale. Il film lo dimenticai quasi subito, quel ribollio scatenato ce l’ho ancora dentro».
Quali sono le differenze fondamentali tra quella Firenze e quella di oggi?
«Mi capita di muovermi in bicicletta, da Sant’Ambrogio al Duomo, dai Lungarni alle Cascine. Ripenso a quel film di Wenders, Il cielo sopra Berlino,
dove un angelo passava tra la gente carpendone brandelli di pensieri. Nel mio percorso si alternerebbero decine di lingue diverse: quelle dei turisti, fino ai Lungarni; quelle dei sudamericani e degli africani, alle Cascine. Fiorentini, una minoranza. Studenti universitari (un po’ chiusi nel loro polo), pochissimi. L’opposto di ciò che avrei trovato facendo lo stesso percorso quando ero ragazzo. Al di là di questo, che è sotto gli occhi di tutti, per me però l’essenza di Firenze, ancor più del suo patrimonio artistico, è l’impasto di “egoismo altruistico” dei suoi abitanti. Curo la mia bottega per guadagnarci, ma anche perché la strada in cui abito ne benefici. Costruisco un palazzo enorme e meraviglioso per celebrare il potere della mia famiglia, ma anche perché tutta la comunità ne tragga orgoglio. Rimetto in sesto la mia attività artigianale dopo l’alluvione per continuare a lavorare, ma anche per mostrare al mondo che noi ce la facciamo da soli».
Secondo te si è perso questo «spirito che si fa materia», dagli anni ’60 a oggi?
«È meno visibile a occhio nudo. La pressione economica della globalizzazione ha spaccato il modello esistente, sprovincializzando un po’ la città ma rendendola forse meno reattiva. Anche se negli ultimi anni vedo giovani che vivono a Firenze (non necessariamente nati qui, a volte giunti da lontano) che si muovono e fanno cose interessanti. O almeno ci provano, il che non è poco. Sono imprenditori, editori, scrittori, musicisti, artisti che meritano attenzione e sostegno pubblico».
Sono d’accordo con te. E adesso parliamo un po’ della Firenze che verrà… Come la vedi? Sia come pensi che diventerà, sia come speri che diventi.
«Mi piacerebbe che ci fosse un investimento sulle periferie, in modo da farle diventare parte integrante del tessuto urbano. Locali dove si possa fare musica, librerie dove si possa passare del tempo, gallerie dove si espongano artisti nuovi o affermati, insediamenti (biblioteche, musei) pensati da architetti capaci di intercettare la contemporaneità e renderla attraente. Vorrei che i quartieri fuori dalla cerchia dei viali acquisissero una loro autonomia, un loro magnetismo. Temo che se non saremo capaci di farlo ci ritroveremo con un meraviglioso centro storico devitalizzato: patrimonio dell’Unesco, ma non più patrimonio di chi a Firenze ci vive, e in fondo neanche di chi lo viene a vedere».
Entriamo nella fantasia… Hai la lampada di Aladino e puoi esprimere un solo desiderio per Firenze, anche impossibile da realizzare…
«L’Arno. L’Arno pulito, verde e non più marrone, balneabile. Pieno di pesci, non di topi. E una parte delle Cascine trasformata in una specie di retrospiaggia verde dove rinfrescarsi dopo qualche ora di sole e di bagni nel fiume». 2. Continua. La prima puntata uscita il 9/12
In Santa Croce I ragazzi avevano un gergo, dei giochi, dei modi di provocarsi diversi dagli altri Al cinema Alfieri All’omino con la cassetta dei gelati chiesero: hai la minestra di pane? E giù tutti a ridere... Le passeggiate Mi muovo in bici e ripenso al film di Wenders con l’angelo tra i pensieri della gente