Mohamed: ma è possibile lottare per un lavoro e riprendersi la dignità
«Eppure io ce l’ho fatta, chiunque può farcela. Ho studiato l’italiano per ore, da solo, ho cercato e ricercato un lavoro, mi sono ripreso la dignità». Anche Shoodhe Mohamed Abdullahi, 26 anni, è somalo, è sbarcato 10 anni fa a Lampedusa, ha vissuto in una casa occupata. «Ma io ci ho provato, e ne sono uscito».
«Non piangete la vostra emarginazione, ma lottate per guadagnarvi rispetto e dignità. Non chiudetevi nelle vostre stanze, ma continuate a cercare lavoro, tutti i giorni. La vita tornerà a sorridervi, a me è successo».
Shoodhe Mohamed Abdullahi, somalo di 26 anni, lavora come cameriere all’Hotel Cellai, in pieno centro storico a Firenze. «Ho realizzato il mio sogno, la tranquillità» dice riflettendosi nei luccicanti specchi dell’albergo con la sua divisa bianca. Un sogno conquistato a caro prezzo, con fatica e forza di volontà. «Mi sono guadagnato la mia vita». Sa cosa significa vivere senza casa, per questo consiglia ai suoi connazionali che sono passati dall’occupazione dell’ex Aiazzone alle brande del palazzetto di Sesto e ancora all’occupazione del palazzo dei gesuiti di non arrendersi.
Shoodhe Mohamed Abdullahi è scappato dalla guerra in Somalia, porta ancora sulla pelle i segni di cinque proiettili che gli hanno attraversato il corpo. Sulle braccia, sulle gambe e sul petto. Ha pagato quattromila euro per attraversare mare e deserto. Poi lo sbarco a Lampedusa. Profugo tra i profughi. Quindi i centri d’accoglienza, la vita randagia sui marciapiedi, l’arrivo a Firenze e le notti all’addiaccio sotto il ponte all’Indiano, i lavori in nero. E la vita da occupante abusivo, insieme ad altri connazionali nella struttura di via Slataper. «Sono andato a vivere in quell’occupazione perché non avevo altre possibilità», racconta oggi. Di quei giorni non ha alcuna nostalgia: «Un palazzo senza regole, senza privacy e senza tranquillità, dove i profughi non avevano quasi più speranze». Così oggi ai suoi connazionali che passano di occupazione in occupazione fa quasi un appello: «Ritrovate le speranze, uscite dall’illegalità delle occupazioni. Se proprio non avete altra scelta, fate come me: provate a cambiare città, provate a trovare altre strade. Altrimenti resterete per sempre in quella tragica condizione».
Mohamed ne sa qualcosa. Dopo il primo soccorso a Lampedusa, dieci anni fa, è stato accolto in un centro per minori non accompagnati ad Agrigento. Poi si è trasferito a Terni, dove aveva conoscenti e dove ha trovato lavoro come operaio nell’acciaieria ThyssenKrupp. Poi i licenziamenti di massa, la scoperta della strada e il tentativo di fuga in Svezia. Le leggi europee, però, non permettono l’assistenza in altri Paesi al di fuori di quello in cui si è sbarcati. Così Mohamed è tornato in Italia con un volo aereo diretto a Venezia: «Sono sceso dall’aereo con 4,50 euro in tasca. Era tutto quello che avevo. Mi sono messo sul primo treno e sono sceso nella prima città». Quella città era Firenze. Prima tappa, l’albergo popolare. Ma l’accoglienza è stata soltanto temporanea e Mohamed è finito in un’occupazione. «Volevo studiare ma non c’erano libri. Così andavo nelle biblioteche e ci passavo ore intere, a leggere. L’italiano l’ho perfezionato così». Studiava sui libri usati, quelli che la gente butta nel cestino. Notte e giorno a sottolineare e ripetere parole.
Poi la svolta, l’ingresso al Centro Paci di Rifredi. Due anni seguito dagli operatori sociali. I corsi di formazione professionale e il tirocinio in albergo. Un’occasione unica. «All’inizio ero impacciato, poi ho cominciato a cavarmela». Non avrebbe mai pensato all’assunzione. Fino a quel giorno, quando il direttore dell’albergo, guardandolo negli occhi, gli ha detto: «Contratto a tempo indeterminato».
Ancora si commuove, Mohamed, raccontando quel giorno. Ma quanta strada in salita, quante lacrime versate e quanta sofferenza. «L’importante è non mollare mai». Difficile spiegarlo a quei somali che oggi si ritrovano a occupare. «È vero, il sistema di accoglienza italiano spesso non riesce a integrare i profughi, non sempre gli accompagnamenti al lavoro portano risultati. C’è molta diffidenza verso noi neri. Ma io ce l’ho fatta e chiunque può farcela. Di certo niente è calato dall’alto».
Eppure tanti giovani somali preferiscono restare uniti, non accettano sistemazioni temporanee dove l’integrazione è più difficile. Mohamed li capisce, però dice: «Molti ragazzi somali sono culturalmente abituati a vivere tutti assieme, senza staccarsi. Io dico loro: dovete avere il coraggio di intraprendere percorsi individuali, con tantissima determinazione». Lui ha fatto così. E oggi si gode la sua casa in affitto in piazza San Lorenzo, il suo stipendio mensile e l’orgoglio di aver costruito la propria esistenza con le proprie mani. «Sono felice, finalmente».
Ho dormito sotto l’Indiano e occupato Passavo ore intere in biblioteca a imparare l’italiano: adesso ho una casa e un lavoro