SALVATE IL CONGIUNTIVO, PERCHÉ È DEMOCRATICO
Nell’immediato dopoguerra il neorealismo cinematografico ebbe un grande successo di pubblico e di critica. I divi di una volta furono sostituiti da gente presa dalla strada. Invece il neorealismo applicato alla politica non ha avuto la medesima fortuna.
Una volta la selezione della classe politica era una cosa seria. C’erano le scuole di partito che davano i punti al sistema scolastico nazionale. E deputati al Parlamento si arrivava, quando si arrivava, dopo un lungo tirocinio: consiglieri comunali, provinciali, regionali e, infine, il grande salto nella Capitale. Ma oggi i partiti di un tempo sono un pallido ricordo. E così c’è stata la bella pensata di aprirsi — come usa dire — alla società civile. E il più delle volte i risultati hanno lasciato parecchio a desiderare. Perfino nel caso dei senatori a vita di nomina presidenziale. Gli estranei alla politica non hanno lasciato traccia. I soli che hanno avuto un peso sono stati coloro che già avevano le mani in pasta nella politica. Ma sì, Sturzo, Merzagora, Parri, Leone, Nenni, Fanfani, Spadolini, Andreotti, De Martino, Taviani, Colombo. In tempi in cui l’antipolitica la fa da padrona, vien quasi voglia di tessere l’elogio dei politici per vocazione cari a Max Weber. In questo bel quadro il grillino Luigi Di Maio fa la sua brava figura. È vicepresidente della Camera. A giorni alterni Grillo lo considera il più bel fico del bigoncio. Gironzola tra le capitali europee perché studia da presidente del Consiglio. Rispetto ai descamisados suoi colleghi di partito, appare inappuntabile perché veste a modino e ha fama di moderato. Di lui si potrebbe ripetere ciò che Giancarlo Pajetta disse di Enrico Berlinguer: «Si iscrisse giovanissimo alla direzione del partito». E ora che ti fa? Si becca una bella congiuntivite. Nel caso specifico nulla potrebbe l’oculista. No, gli ci vuole l’Accademia della Crusca. È vero che questa benemerita istituzione, impietositasi di tanta ignoranza, si sta arrendendo alla scomparsa del congiuntivo. Ma il troppo stroppia. E già, perché lo spensierato Di Maio per tre volte di seguito, prima su Twitter e poi su Facebook, non ha azzeccato un congiuntivo neppure per sbaglio. E, a riprova che le responsabilità sono immancabilmente orfane, ha gettato la croce addosso a una sua collaboratrice. La colpa, si sa, è sempre del gatto. Certo, può vantare un diploma di liceo classico. Ma nel 2016, a trent’anni suonati, si è ritirato dagli studi universitari dopo essersi iscritto prima a Ingegneria e poi a Giurisprudenza senza mai aver conseguito la laurea. Goliardo senz’arte né parte. D’altronde non si può essere studenti fuoricorso a vita. Non si tratta solo di un madornale errore di grammatica. C’è anche un risvolto psicologico inquietante. Il congiuntivo indica un’eventualità, un dubbio. Per esemplificare: «Penso che sia così». Penso, non ne sono assolutamente sicuro. Ma più l’ignoranza avanza, più prevale l’indicativo presente. «Penso che è così». Non ho dubbi, ne sono arciconvinto. E chi ha certezze incrollabili fa sempre paura. Vuol dire che ha scritto in fronte «Gott mit uns». Dio è con noi. Per l’appunto il motto dei re di Prussia e poi degli imperatori tedeschi. E allora ecco la morale della favola. Chi disdegna il congiuntivo è un aspirante totalitario, magari a sua insaputa. Mentre chi lo coltiva è un sincero liberaldemocratico. Di Maio studia da presidente del Consiglio? Vien voglia di dire: «Aridatece er Puzzone». Perché Renzi, dopo la batosta referendaria, sembra essersi riconciliato con il congiuntivo. Buon per lui. Difatti la congiuntivite è una brutta malattia. Si rischia di prendere di continuo lucciole per lanterne.