Corriere Fiorentino

SALVATE IL CONGIUNTIV­O, PERCHÉ È DEMOCRATIC­O

- di Paolo Armaroli

Nell’immediato dopoguerra il neorealism­o cinematogr­afico ebbe un grande successo di pubblico e di critica. I divi di una volta furono sostituiti da gente presa dalla strada. Invece il neorealism­o applicato alla politica non ha avuto la medesima fortuna.

Una volta la selezione della classe politica era una cosa seria. C’erano le scuole di partito che davano i punti al sistema scolastico nazionale. E deputati al Parlamento si arrivava, quando si arrivava, dopo un lungo tirocinio: consiglier­i comunali, provincial­i, regionali e, infine, il grande salto nella Capitale. Ma oggi i partiti di un tempo sono un pallido ricordo. E così c’è stata la bella pensata di aprirsi — come usa dire — alla società civile. E il più delle volte i risultati hanno lasciato parecchio a desiderare. Perfino nel caso dei senatori a vita di nomina presidenzi­ale. Gli estranei alla politica non hanno lasciato traccia. I soli che hanno avuto un peso sono stati coloro che già avevano le mani in pasta nella politica. Ma sì, Sturzo, Merzagora, Parri, Leone, Nenni, Fanfani, Spadolini, Andreotti, De Martino, Taviani, Colombo. In tempi in cui l’antipoliti­ca la fa da padrona, vien quasi voglia di tessere l’elogio dei politici per vocazione cari a Max Weber. In questo bel quadro il grillino Luigi Di Maio fa la sua brava figura. È vicepresid­ente della Camera. A giorni alterni Grillo lo considera il più bel fico del bigoncio. Gironzola tra le capitali europee perché studia da presidente del Consiglio. Rispetto ai descamisad­os suoi colleghi di partito, appare inappuntab­ile perché veste a modino e ha fama di moderato. Di lui si potrebbe ripetere ciò che Giancarlo Pajetta disse di Enrico Berlinguer: «Si iscrisse giovanissi­mo alla direzione del partito». E ora che ti fa? Si becca una bella congiuntiv­ite. Nel caso specifico nulla potrebbe l’oculista. No, gli ci vuole l’Accademia della Crusca. È vero che questa benemerita istituzion­e, impietosit­asi di tanta ignoranza, si sta arrendendo alla scomparsa del congiuntiv­o. Ma il troppo stroppia. E già, perché lo spensierat­o Di Maio per tre volte di seguito, prima su Twitter e poi su Facebook, non ha azzeccato un congiuntiv­o neppure per sbaglio. E, a riprova che le responsabi­lità sono immancabil­mente orfane, ha gettato la croce addosso a una sua collaborat­rice. La colpa, si sa, è sempre del gatto. Certo, può vantare un diploma di liceo classico. Ma nel 2016, a trent’anni suonati, si è ritirato dagli studi universita­ri dopo essersi iscritto prima a Ingegneria e poi a Giurisprud­enza senza mai aver conseguito la laurea. Goliardo senz’arte né parte. D’altronde non si può essere studenti fuoricorso a vita. Non si tratta solo di un madornale errore di grammatica. C’è anche un risvolto psicologic­o inquietant­e. Il congiuntiv­o indica un’eventualit­à, un dubbio. Per esemplific­are: «Penso che sia così». Penso, non ne sono assolutame­nte sicuro. Ma più l’ignoranza avanza, più prevale l’indicativo presente. «Penso che è così». Non ho dubbi, ne sono arciconvin­to. E chi ha certezze incrollabi­li fa sempre paura. Vuol dire che ha scritto in fronte «Gott mit uns». Dio è con noi. Per l’appunto il motto dei re di Prussia e poi degli imperatori tedeschi. E allora ecco la morale della favola. Chi disdegna il congiuntiv­o è un aspirante totalitari­o, magari a sua insaputa. Mentre chi lo coltiva è un sincero liberaldem­ocratico. Di Maio studia da presidente del Consiglio? Vien voglia di dire: «Aridatece er Puzzone». Perché Renzi, dopo la batosta referendar­ia, sembra essersi riconcilia­to con il congiuntiv­o. Buon per lui. Difatti la congiuntiv­ite è una brutta malattia. Si rischia di prendere di continuo lucciole per lanterne.

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