«Così nel palazzo dei Gesuiti ho visto calpestare la legalità»
La porta sfondata, l’allarme al 113, le bugie di Bargellini: il blitz dei somali raccontato da dentro
Qui faccio volontariato da molti anni, occupandomi soprattutto della promozione degli eventi sulla stampa. E qui accanto hanno fatto irruzione 100 rifugiati somali.
Inizia tutto martedì scorso. Ore 13. Enrico è il responsabile della libreria Alzaia, accanto allo Stensen. Si precipita nel mio ufficio: «Sono passati 30 ragazzi africani, li ho visti sfondare una porta del palazzo». Corro in strada, arrivo al portone. Sento le urla dei migranti. Tento di entrare, ma la situazione è troppo caotica. Non entro, troppo rischioso. Chiamo allora il 113, mi sembra il minimo. «Un gruppo di migranti — dico al centralinista che risponde — ha fatto irruzione in un palazzo dei Gesuiti in via Silvio Spaventa». Non c’intendiamo al volo: «In quale via? Come? Ma lei chi è?». Mi armo di pazienza, spiego la situazione per filo e per segno. «Aspetti un attimo — dicono dal centralino del 113 — le passo i carabinieri». I carabinieri però non rispondono. La telefonata rimbalza nuovamente sul 113. Passano cinque minuti, nel frattempo i migranti continuano a passare sul viale Don Minzoni a piccoli gruppi. Entrano nel palazzo, uno dopo l’altro, sempre di più. Mentre sono al telefono con la polizia, realizzo ciò che sta accadendo: sono i somali usciti dal palasport di Sesto Fiorentino, quelli scampati al rogo dell’ex Aiazzone. E l’irruzione nel palazzo dei Gesuiti è guidata dal Movimento di lotta per la casa.
Tutti sapevano che una nuova occupazione era imminente. Bargellini l’aveva annunciato sui giornali. Perché allora è stata permessa l’irruzione dentro il nostro palazzo? Perché i somali sono stati liberi di arrivare da Sesto Fiorentino alle Cure senza che nessuno sia riuscito a fermarli? Penso questo mentre sono al telefono con la polizia. Finisco la telefonata col 113 e chiamo subito Lorenzo Bargellini, leader del Movimento. Lo conosco da anni. «Lorenzo, hai occupato un palazzo di proprietà dei Gesuiti. Non è affatto un immobile abbandonato, ma in fase di vendita all’Università cinese di Shanghai per un importante progetto interculturale. Così metti a repentaglio il futuro del progetto e, indirettamente, l’attività dello Stensen», provo a spiegare.
Mi apposto fuori dal portone, mentre i somali continuano a impossessarsi furiosamente dell’edificio. Altri due minuti e spunta lui, Bargellini, capello disordinato al vento e aria combattiva. Ovazione dei somali. Con lui ci sono attivisti, elettricisti e tecnici italiani. È lo zoccolo duro del Movimento di lotta per la casa, quelli che sfondano porte e manipolano gli impianti elettrici delle case abusive. Entro anch’io nel palazzo. Una giovane attivista mi dice: «Lei chi è? Qui non si può entrare». Sarebbe casa mia, penso tra me. Sembra tutto surreale. Cominciano ad arrivare furgoni carichi di valigie, materassi, coperte. Arrivano anche due pattuglie dei carabinieri e alcuni uomini della Digos.
Mi viene spontaneo scattare foto, fare video. Deformazione professionale. Poi però vedo arrivare in strada Ennio Brovedani, padre gesuita direttore della Fondazione Stensen. Ha le lacrime agli occhi, umanamente toccato dall’emarginazione dei profughi e dall’occupazione del palazzo in cui ha vissuto per 30 anni, fino a pochissimi mesi fa, quando si è trasferito negli uffici dello Stensen per lasciare spazio ai sopralluoghi dell’Università cinese, che stava formalizzando l’acquisto. È scioccato. Lascio videocamera e taccuino, provo a mediare. Presento Padre Ennio a Lorenzo Bargellini. Una chiacchierata atipica. Brovedani spiega, Bargellini ascolta, ma i somali continuano a entrare. Poi Bargellini chiama i giornalisti. «Venite, occupazione in via Spaventa». E i giornalisti arrivano. Bargellini dice loro: «Abbiamo occupato questo palazzo abbandonato da 5 anni». Però non è affatto vero. Fino a pochi mesi fa, qui vivevano i Gesuiti e padre Ennio. Resto deluso. Credevo, nella mia ingenuità, che il Movimento di lotta per la casa occupasse solo immobili abbandonati e di- menticati da anni. Dico a Bargellini quello che penso, lui incassa, però continua: «È colpa del Comune che non vuole farsi carico dei somali, restiamo qui solo temporaneamente». Potrebbe voler dire un anno, due anni. E nel frattempo, addio progetti culturali.
Sono ore concitate. Alle 15 squilla il telefono di padre Ennio. È la Compagnia dei Gesuiti di Roma. Padre Ennio mi passa il telefono. Da Roma mi chiedono delucidazioni sulla situazione, sui rifugiati, sul Movimento di lotta per la casa. Una lunga telefonata, fuori al freddo, di fronte ai somali che scorrazzano nel palazzo. La linea
dei Gesuiti è chiara sin dall’inizio: «Niente sgomberi e niente uso della forza. Siamo umani. Al contempo, rispetto della legalità». Torniamo allora negli uffici della Fondazione Stensen. Cerchiamo di riflettere, far scivolare l’adrenalina. Ci sentiamo impotenti. I telefoni bollono. Chiamano giornali e televisioni. Nessuna telefonata, invece, dal Comune. Peccato, ci diciamo tra noi.
E così arriva mercoledì mattina. Il sindaco Nardella parla coi giornalisti: «Se i padri Gesuiti vogliono farsi carico della situazione, noi facciamo un passo indietro». Però dal Comune nessuna telefonata. Provo a sollecitarla io, chiamando l’ufficio stampa di Palazzo Vecchio: «Dite all’assessore di chiamare Padre Ennio, è molto preoccupato». L’assessore Funaro telefona al religioso. Ma sembrano esserci solo due soluzioni percorribili: sgombero con la forza o accoglienza dei somali per due mesi. È la storia degli ultimi dieci giorni. I somali vorrebbero progetti più duraturi, il Comune però lascia intendere che i posti non ci sono e che, oltretutto, molti di quei somali sono già passati attraverso progetti d’integrazione. Però non hanno funzionato. Colpa dell’arrendevolezza dei somali? Colpa dell’inefficacia dei progetti? Forse sono vere entrambe le cose. Perché allora, pensiamo, non dare una seconda possibilità ai migranti?
Padre Ennio va in Questura. Incontra la Digos. Parte la denuncia, ma niente sgomberi. Brovedani mi ripete: «L’accoglienza non può essere fatta prescindendo dalla legalità. Ognuno degli attori coinvolti in questa battaglia deve fare un passo indietro». Eppure, mi sembra che gli unici a fare un passo indietro siamo noi.
I somali sono ancora qui. Andiamo al supermercato in via Masaccio a comprare arance, ceci, pane, piatti di plastica per loro. I somali ringraziano. Accompagno padre Ennio dentro il palazzo, chiedendo permesso ogni volta che entriamo. Due somali sono ubriachi fradici. Altri, però, dimostrano di avere rispetto del gesuita: «Siamo ospiti a casa tua. Grazie». Padre Ennio li abbraccia, turbato per le loro condizioni ma, allo stesso tempo, turbato per i rischi che corrono le opere d’arte nello stabile e per il progetto con le università cinesi. Da Roma arriva la linea decisa dalla Compagnia dei Gesuiti: «Rispettiamo e siamo vicini alla sofferenza di queste persone, sono rifugiati, ma la solidarietà non può essere fatta prescindendo dalla legalità. L’occupazione non è la giusta soluzione ai problemi dei migranti. Servirebbe una presa di coscienza delle istituzioni, in primis quelle locali, che riesca andare aldilà della media emergenza».
Ritorno nel palazzo con padre Ennio. C’è Bargellini. Ci chiede se i Gesuiti hanno qualche palazzo abbandonato a Firenze, dove eventualmente trasferire i somali. Non ne hanno, e non sappiamo cosa fare. Parliamo coi rifugiati. Ci dicono che nel palazzo stanno bene, ma preferirebbero nuovi progetti di accoglienza, piuttosto che l’occupazione.
Si ha l’impressione, in queste ore di caos calmo, che tutti si stiano approfittando della situazione. Continuiamo a sperare nel buon senso: del Movimento di lotta per la casa, del Comune, dei somali. È paradossale, ci diciamo nei corridoi dello Stensen, tentare di fare giustizia sociale in un immobile destinato al sociale, tanto più con strade illegali. Passano le ore, i somali mangiano le arance, buttano le bucce per terra, però poi spazzano. Girano incappucciati nei freddi corridoi. Con noi sono gentili. Dispiace vedere esseri umani fuggiti dalla guerra ridotti in questo stato. Hanno pochi materassi, qualcuno dorme per terra. Padre Ennio vuole mobilitare la parrocchia per gli aiuti. Ieri sera nuova tappa al supermercato: ancora ceci, tonno, pane. I somali ringraziano. Però questo non sarebbe compito nostro. E ci chiediamo se, col buon senso, si possa trovare una soluzione pacifica. Col coraggio, da parte di tutti, di mettersi in discussione.
Accoglienza? Ogni sera andiamo a fare la spesa per gli occupanti: pane, tonno, ceci. Loro ringraziano, ma questo non sarebbe compito nostro