IL MIO NO ALLA PALUDE
Ho avuto il privilegio di condividere spesso le mie opinioni con i lettori sin dalla nascita del Corriere Fiorentino: 175 commenti dal 2008. Questo, però, è l’ultimo. Mi congedo innanzitutto ringraziando Paolo Ermini, dal quale mi sono sempre venuti preziosi spunti di riflessione e grande rispetto per le mie idee (del resto sulle questioni istituzionali, ci siamo trovati spesso d’accordo). L’esperienza col Corriere è stata per me la più duratura e soddisfacente.
Due mesi fa, il 4 dicembre 2016, quasi il 60% degli elettori salve poche regioni e città fra cui (piccola consolazione) la Toscana e Firenze, hanno respinto la riforma costituzionale approvata coraggiosamente dalle Camere, privandosi di ogni possibilità di dotare l’Italia degli strumenti necessari a governarsi (chiunque i cittadini volessero designare).
Ciò accade in un momento di grande incertezza: quando saggezza avrebbe imposto che si sacrificasse qualsiasi aspetto secondario (tutto, meno i valori supremi) al rafforzamento della governabilità del Paese che ha fragilità drammatiche. Penso al micidiale cocktail di debito pubblico alto (rispetto al Pil), poca crescita, produttività ferma, invecchiamento. Ciò rende arduo reggere le sfide europee e mondiali: cose che i lettori conoscono e che gli elettori sapevano quella domenica. L’Europa zoppica, c’è Brexit, c’è Trump, le prospettive del commercio internazionale accrescono i guai di chi di export vive.
Il conto ci viene già presentato. Prima vittima il salvataggio del Monte dei Paschi senza soldi pubblici; poi lo spread (vola di nuovo verso 200: più interessi da pagare ai creditori, meno soldi per le politiche pubbliche); poi la scomparsa della flessibilità di cui si godeva grazie alle riforme (riecco le manovre di «aggiustamento»). E di nuovo quella sgradevole sensazione di essere interlocutori poco credibili, riformatori recalcitranti; diciamolo: quelli di sempre, in grado — se va bene — di fermarsi sull’orlo del precipizio, mai di procedere con determinazione e costanza, ogni giorno, sulla strada di una maggiore efficienza.
Si dovrà comunque provvedere a ciò che la riforma costituzionale avrebbe permesso di affrontare, se non di risolvere. A che prezzo e in quali circostanze non so, spero il meno drammatiche possibile. Una cosa è certa: non saranno rose e fiori. La prospettiva più probabile è continuare nell’attuale lento inesorabile declino (comparativamente parlando). Avevamo la possibilità di ripartire, e rieccoci nella palude.
Non me la prendo con quella maggioranza di cittadini che non ha trovato di meglio che cogliere la prima occasione che si presentava per mandare a casa uno dei governi più riformatori di sempre, a partire da chi aveva raccolto la sfida di guidarlo, in un momento difficile (cui quello attuale molto somiglia). Me la prendo con buona parte della classe dirigente che ha dato un’imperdonabile prova di irresponsabilità: classe politica, informazione, accademia. Invece di fare fronte comune in nome di un evidente interesse nazionale si è fatto a gara per distruggere l’unica reale chance che il paese aveva.
Certo, errori erano stati compiuti da tutti, Matteo Renzi incluso. Ma per i politici non mi riferisco a Grillo o a Salvini, da cui c’era da aspettarsi facessero il loro mestiere; mi riferisco a Berlusconi e anche a quella parte del Pd che ha sparato da anni sul proprio quartier generale. Quanto all’accademia mi riferisco a quei cattivi maestri che hanno delegittimato, sin dall’inizio, a freddo, la riforma con motivazioni risibili. Essa aveva certo i suoi difetti: ma non andava giudicata per dettagli più o meno marginali, ma nel suo complesso e nella sua suscettibilità di assecondare il tentativo di rimettere in piedi un paese in catalessi e magari provare a farlo corricchiare. Invece… Tutti immemori della comune opinione, nel 2013, che le riforme fossero un’emergenza assoluta; tutti immemori dei consensi tributati al rieletto Napolitano che spronava a farle (ora trattato da tanti che applaudirono come una sorta di traditore: atteggiamento che considero un’infamia); tutti fingendo di non aver letto ciò che la Commissione Letta (in epoca preRenzi) aveva affermato unanime: essere la riforma costituzionale condizione necessaria per uscire dalla crisi.
Molti lettori sanno che nel mio piccolo ho fatto il possibile, da studioso, da docente, da commentatore, per spiegare la necessità delle riforme e i meriti di quest’ultima. Ed è stato bello vedere che molti, specie qui da noi, cittadini, politici e accademici, si sono dati altrettanto da fare.
Ma non mi è proprio possibile fare come se nulla fosse. Dopo aver sostenuto le riforme per tanti anni, mi considero, dopo il 4 dicembre, delegittimato a continuare a scrivere «opinioni» così brutalmente smentite dai miei concittadini. Non mi sento di continuare a proporre cose che nessuno (meglio: che solo una minoranza ristretta di italiani) pensa siano utili. Tantomeno voglio mettermi nella condizione di chi può esser tentato, inconsciamente, di tifare contro per mostrare di aver avuto ragione. Non mi si confà la patetica parte del grillo parlante che dispensa buoni consigli assumendosi presuntuosamente il ruolo di coscienza per conto terzi (figuriamoci!).
Caro direttore, cari lettori, è tempo che altri, più giovani, più in sintonia con la realtà attuale e con maggiore credibilità, si occupino di dire come affrontare i problemi di governo del nostro Paese.