I prof salva-italiano: «Non abbiamo accusato i colleghi»
Nuovo intervento dei seicento firmatari della lettera: «Il nostro era solo un richiamo al ministero»
«Nessuna nostalgia ma la convinzione che più rigore faccia l’interesse dei ragazzi»
Non voleva essere un atto di accusa verso gli insegnanti delle scuole elementari e medie la lettera aperta inviata al Governo e al Parlamento con le firme di oltre 600 docenti universitari (nel frattempo sono diventati 673 e tra loro ci sono accademici della Crusca e storici come Ernesto Galli Della Loggia e Luciano Canfora, ma anche quattro rettori , sociologi come Ilvo Diamanti, filosofi come Massimo Cacciari, costituzionalisti e storici dell’arte) per denunciare le carenze nell’uso dell’italiano degli studenti. Ci tengono a fare alcuni chiarimenti i promotori del documento, ovvero gli animatori di quel Gruppo di Firenze per la scuola del merito e della responsabilità che in passato si era impegnato per scoraggiare le «tradizionali» occupazioni delle scuole superiori.
L’appello lanciato nei giorni scorsi «ha suscitato anche alcune critiche accanto a un ampio consenso», come spiega Giorgio Ragazzini che specifica: «La lettera è un richiamo alle responsabilità di orientamento, di sollecitazione e di controllo che competono al Ministero dell’ Istruzione. Di accuse ai colleghi delle elementari non c’è traccia».
I promotori dell’appello poi rigettano l’accusa secondo la quale i seicento docenti sarebbero «fautori di un ritorno alla scuola del passato». «Nessuna nostalgia ma la convinzione che una scuola più rigorosa è nell’interesse soprattutto dei ragazzi che partono più svantaggiati» e per il bene della scuola pubblica si dovrebbe rinunciare all’abitudine di «creare su tutto schieramenti contrapposti, valutando quali metodologie possono essere più efficaci, sia recuperandone alcune che sono cadute in disuso, sia utilizzando quanto l’esperienza e l’innovazione rendono disponibile».
Un altro chiarimento riguarda la discussione sui «programmi» nazionali dove ci sarebbero troppi obiettivi, «senza che sia chiaro fin dove si può spingere l’autonomia dei professori». In altre parole, conclude Ragazzini: «Fino a che punto un docente è libero di non tenerne conto nelle sue scelte?».
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