TUTTI CONTRO UNO UNO CONTRO TUTTI
Presidente della Provincia di Firenze. Sindaco di Firenze. Segretario del Pd. Presidente del Consiglio. Vincitore alla grande delle elezioni europee. Quella di Matteo Renzi è stata una marcia trionfale. Fino a un certo punto. E dall’oggi al domani, fulminati come San Paolo sulla via di Damasco, perfino nella rossa Emilia si contarono un’infinità di renziani più di Renzi. All’insegna del primum vivere, deinde philosophari. Solo chi aveva il coraggio leonino di fare la fronda si dichiarava tutt’al più arenziano. Né con Renzi né contro Renzi. Basti citare per tutti Enrico Rossi, per la seconda volta presidente della Regione Toscana per grazia ricevuta. Difatti per insondabili ragioni Renzi non solo non si oppose al bis ma addirittura lo propiziò. Anche a costo di dispiacere a qualche suo sodale dal robusto appetito, che avrebbe ambito a prenderne il posto. Ma la riconoscenza è il sentimento della vigilia, come sosteneva Enrico De Nicola. La stella di Renzi s’è appannata dopo il mancato successo alle elezioni amministrative e soprattutto dopo la Caporetto del referendum costituzionale. Ha abbandonato prima la poltrona di Palazzo Chigi e poi quella del Nazareno, con l’aspettativa di succedere a se stesso. Ed ecco, puntuale come la cartella delle tasse, il contrordine compagni. Colui che era considerato ottimo e abbondante come il rancio militare, di punto in bianco è accusato di non indovinarne più una. Di essere, agli occhi dei suoi antagonisti spuntati come funghi dopo la pioggia, una zavorra. Ma sì, diciamola tutta, un intruso che si è permesso di scippare la poltrona ai suoi predecessori. A coloro accusati da Nanni Moretti di essere destinati a buscarle di santa ragione all’infinito. Pensa e ripensa, Rossi alla fine attraversa il Rubicone. Non poteva essere altrimenti, del resto. Perché lui, se ci capite qualcosa, si considera un comunista democratico di scuola berlingueriana. Come arrampicatore sugli specchi non c’è male. Al confronto le convergenze parallele di marca democristiana sono di una chiarezza cartesiana. Felice come una Pasqua, Rossi si volta immaginando di avere dietro di sé il Quarto Stato raffigurato da Pellizza da Volpedo. E invece si ritrova con quattro gatti o giù di lì. Perfino nella sua Toscana. Come Pulcinella alla guerra, s’illudeva di aver fatto un gran numero di prigionieri. Il guaio è che non lo lasciano andare. Ma sì, lo tengono in ostaggio e lo rosolano a fuoco lento. Non le manda a dire, Rossi. Afferma di essere uscito dal Pd «dopo anni di politiche sbagliate». Per lui, come per Gino Bartali, è tutto sbagliato, tutto da rifare.
Con il senno di poi, però. Tuttavia, a uso e consumo dei creduloni, tiene a sottolineare di non avere nulla di personale nei confronti di Renzi. E indossati i panni del signor de La Palisse, dichiara che se il Consiglio regionale gli revocherà la fiducia, lui rassegnerà le dimissioni. Un obbligo giuridico, non già una libera scelta. Sia chiaro. Bene gli altri, come scrivono i critici teatrali. E questo è un teatrino, un trito teatrino della politica ormai ripudiato dalla gente. Il mastodontico Emiliano sfoggia il meglio del peggio di certa sinistra. Il tic di cercare di abbattere l’avversario per via giudiziaria. Il tic di scagliare il sasso e nascondere la mano. Il tic di dire e non dire. Ma i suoi messaggi cifrati, per chi conosca il latinorum, sono abbastanza chiari. Non gli parrebbe il vero di far ricadere su Renzi le eventuali colpe del genitore. Dulcis in fundo, Andrea Orlando. Crispi sosteneva che la Monarchia unisce là dove la Repubblica dividerebbe. Ecco, Orlando dà l’idea di paragonarsi al Padre della Patria. Nientemeno che a Vittorio Emanuele II in persona. Perché lui si considera — si faccia bene attenzione — il «più in grado di unire le diverse culture e anime del Pd nello spirito originario del progetto». Mentre, a suo dire, Renzi dividerebbe. Con quel faccino da putto, il ragazzo è sveglio. Nasce come funzionario di partito, e il partito — nelle sue diverse incarnazioni — lo conosce a fondo. Per questo piace non solo ai Napolitano e ai Macaluso, ma anche ai fuorusciti D’Alema, Bersani, Speranza, Fontanelli e compagnia cantante. Come i suoi estimatori, lui viene da lontano. Il richiamo della foresta pietrificata li accomuna. È vero, il Guardasigilli non ha una laurea in Giurisprudenza. Di più, nessuna laurea. Ma dà l’illusione di rinverdire le glorie della ditta del tempo che fu. E questo basta e avanza. Tutti contro uno. E uno contro tutti. Perché Renzi è un cattolico adulto non aduso a porgere evangelicamente l’altra guancia. Siamo alla replica in chiave politica della partita di calcio giocata a Wembley alla presenza della regina Elisabetta il 23 ottobre 1963, in occasione del centenario dell’associazione di football d’Oltremanica. La squadra inglese contro il resto del mondo. La partita del secolo. E vinta, manco a dirlo, dalla perfida Albione. Ecco, Renzi si sente in questo frangente un po’ come la squadra britannica. Confida pure lui di sbaragliare i suoi avversari e di riconquistare alle primarie la segreteria del partito. La cosa è probabile. Da ieri sera ne siamo più convinti anche noi. In un momento di oggettiva difficoltà Renzi a Otto e mezzo non solo si è confermato il solito mattatore ma — al confronto della Gruber e del direttore de l’Espresso Cerno — è apparso un mostro di simpatia. Una notizia, questa, che meriterebbe di fare il giro del mondo. Renzi ha il sostegno di Fassino e di Franceschini. Con i quali è dovuto scendere a patti. E Franceschini, si sa, ha il suo peso. Ma Iddio ci guardi dagli amici. Perché i maligni lo paragonano al vecchio democristiano Enzo Scotti, soprannominato Tarzan per il suo planare di continuo da una corrente di partito all’altra. Cattiverie e nulla più, si capisce. È vero, Renzi dovrà fare i conti con Mattarella, che non ha gradito qualche sgarbo. Ma lui assicura, per tranquillizzare il Colle, che Gentiloni staccherà la spina al governo quando lo riterrà opportuno. E così, tra i suoi difettucci, l’ex premier dà l’impressione di annoverare anche quello di arrossire solo quando dice la verità. A ogni morte di Papa.