Lei in clausura, tra i colori
C’è Plautilla dall’8 in mostra agli Uffizi, ma ci sono anche Antonia, Angela, Teresa, Ortensia Le prima artiste a Firenze erano suore. Un caso? Tutt’altro, solo nei monasteri alle donne era consentito dipingere
Il tempo del silenzio sull’arte delle suore pittrici è finalmente finito. Dopo una lunga sfortuna critica, dovuta alla scarsezza di fonti coeve e di studi sull’argomento, gli storici dell’arte hanno avviato un lavoro sistematico di ricerca grazie al quale una storia dell’arte «parallela», rimasta celata per secoli dietro l’anonimato delle grate dei conventi di clausura, è ora rivelata. La mostra su suor Plautilla Nelli, promossa da Eike Schmidt e curata da Fausta Navarro, è dunque l’occasione per raccontare alcune delle loro storie.
Per comprendere il valore storico e artistico di queste donne straordinarie è necessario tornare indietro nel tempo di oltre cinquecento anni e immaginare come doveva essere la loro vita in una Firenze che, sebbene internazionale e all’avanguardia, restava una città non facile, e questo valeva, come è facile immaginare, soprattutto per le donne. Sono trascorsi pochi anni dalla messa al rogo di Savonarola e la cicatrice che questo fatto di sangue ha inferto negli animi dei fiorentini è ancora aperta. In tanti sono i nobili che, sedotti dalle prediche del carismatico domenicano, abbandonano il lusso e le stravaganze per dedicarsi a una vita fondata su severi principi di moralità. Molti si spingono oltre e abbracciano la vita monastica, come Camilla Bartolini Davanzati che, insieme al marito Ridolfo Rucellai, fonda agli inizi del Cinquecento, un convento dedicato a santa Caterina da Siena. Tra le mura di questo convento, una bambina di nome Caterina de’ Medici viene protetta prima di fuggire per Roma; ed è sempre qui che nel 1538, all’età di quindici anni, suor Plautilla, al secolo Polissena de’ Nelli, prende i voti. Plautilla passerà alla storia grazie a Vasari che, nelle Vite, la descrive come una donna che «avrebbe fatto cose meravigliose se, come fanno gl’uomini, avesse avuto commodo di studiare ed attendere al disegno e ritrarre cose vive e naturali».
Ma Plautilla non fu la sola suora dedita alle arti, né per altro fu la prima a esprimersi con l’ausilio della creatività.
Abbiamo chiesto a Sheila Barker, direttrice del «Jane Fortune Research Program on Women Artists» presso il Medici Archive Project, di svelarci i segreti di un universo femminile nascosto, fatto di personalità dimenticate. La studiosa ci racconta che a quel tempo non era così semplice per le donne intraprendere la carriera di artista e spesso, grazie al velo, era possibile aggirare i regolamenti delle corporazioni delle arti: vivere sotto la protezione del potere ecclesiastico, infatti, le dispensava dal rigido controllo dello stato. A Firenze, la prima suora pittrice di cui si conosce il nome, altri non è che Antonia di Paolo di Dono, figlia di Paolo Uccello. Fu proprio dal padre, pioniere degli studi sulla prospettiva, artista geniale e visionario, che la giovane carmelitana apprese l’arte del dipingere, a cui dedicò tutta la vita. La sua produzione, di cui si conosce pochissimo, fu così feconda che sul suo certificato di morte è indicata come «pittoressa». Come Antonia, anche suor Umiltà ebbe parenti illustri. Figlia di Cassandra di Ridolfo del Ghirlandaio e di Niccolò Sirigatti, ultima della sua famiglia a dedicarsi alle arti, nel 1555 entrò nel convento di san Giovannino dei Cavalieri di Malta, luogo che accoglieva persone di alto lignaggio. Di Umiltà non abbiamo che poche notizie. Di certo, com’era consuetudine tra gli artisti, dipingeva i ceri, ma i documenti raccontano come fosse anche una virtuosa organista. All’ordine benedettino, invece, appartenne suor Angela di Antonio de’ Rabatti, abile miniaturista, che lavorò alla decorazione di uno splendido breviario datato 1518, scritto da una sua consorella e oggi custodito presso la Biblioteca Laurenziana. La Barker ci segnala come in esso compaia un autoritratto di suor Angela e uno della consorella, testimonianza, questa, di profonda autostima e riconoscimento dell’autorità della propria attività artistica.
Anche il monastero delle Murate ospitava delle artiste, dedite a una ricca produzione tessile figurativa. «Le monache di clausura usavano ago e filo come fossero pennelli — ci dice la studiosa — confezionando manufatti di tale lusso e bellezza da divenire bersaglio di Savonarola che le accusò di aver monetizzato la fede». La fortuna di Plautilla fu essere una contemporanea di Vasari che ne fece una pioniera, consacrandola alla storia dell’arte. Grazie alla diffusione delle Vite, il destino delle suore artiste cambiò radicalmente. Alla ricerca di modelli femminili cui ispirarsi, esse scoprirono che la «buona pittura» di una di loro era stata esaltata e, sull’esempio di Plautilla, iniziarono a uscire dall’anonimato. È il caso di Ortensia Fedeli, attiva nel XVII secolo, che affrescò la chiesa del monastero di Sant’Apollonia, affreschi oggi perduti, ma che furono apprezzati e menzionati in diverse pubblicazioni fino all’Ottocento. Di lei si dice che fosse «eccellente nell’arte della pittura e dotta nelle lingue latina e greca, nella musica e canta e suona molti strumenti». Al pari di Ortensia, il talento di Arcangela Paladini fu tale da meritare il sostegno dei Granduchi di Toscana: grazie al patrocinio di Maria Maddalena d’Austria, Arcangela divenne artista di corte, dedicandosi alla pittura, alla poesia e alla musica. Infine va ricordato il nome di Teresa Berenice Vitelli, che entrò in convento nel 1704 per vera vocazione. Oltre ad aver lasciato un ricchissimo legato di quadri da lei dipinti, la Vitelli riuscì perfino a presentare le proprie opere in una delle prime mostre pubbliche fiorentine presso la Santissima Annunziata. Come sia riuscita questa suora a mettersi in contatto con le Belle Arti e ad esporre insieme agli uomini, resta un mistero.
La storia ci dice che le opere di queste donne non vanno più lette solo come atti di fede, di devozione e di raccoglimento. Il fare artistico era per loro l’espressione della più pura individualità di artiste.
Discriminazioni Allora non era semplice per le donne intraprendere quella carriera, ma grazie al velo, era possibile aggirare le regole delle corporazioni delle arti