Corriere Fiorentino

Matteo e la carta del gentismo (ma non è un asso)

- di David Allegranti

Dopo la vittoria del No al referendum, l’invecchiam­ento politico di Matteo Renzi si è fatto rapido, feroce, dolorosiss­imo. C’è un nuovo presidente del Consiglio, non c’è più un segretario del Pd, c’è un congresso di partito che rischia diventare quello di Magistratu­ra Democratic­a, fra Renzi che ha il babbo indagato nell’inchiesta su Consip, Michele Emiliano, governator­e-magistrato, che è testimone nella stessa inchiesta e Andrea Orlando che fa il ministro della Giustizia. Chi ha vinto, cioè il fronte del No, si è accontenta­to di disarciona­re Renzi senza offrire — ed era prevedibil­e, vista la disomogene­ità della «proposta» — niente per il dopo. L’importante era abbattere Renzi, il resto interessav­a poco.

Il risultato è un gigantesco vuoto politico. E come sempre accade, i vuoti in politica si riempiono subito. La pluridecen­nale storia politico-giudiziari­a dell’Italia ci insegna che di solito ci pensa la magistratu­ra a fare da supplente, a sostituirs­i ai partiti (o a quel che ne resta). Il che, però, rende — ancora una volta — il lato politico più interessan­te di quello giudiziari­o. Il Renzi sconfitto dal referendum, anziché sparire per un po’ a recuperare qualche straccio d’idea, come gli è stato consigliat­o da più parti, è tornato a imperversa­re subito, tra blog, Instagram, tweet, Facebook, interviste televisive e cartacee, un florilegio di dichiarazi­oni insomma, la stessa logorrea che ha contribuit­o alla sconfitta del 4 dicembre. Il problema principale non è l’eccesso comunicati­vo, ma la mancanza di una proposta politica solida e il cedimento culturale al grillismo e al gentismo. Il gentismo, malattia infantile del populismo, è tutto intorno a noi e ha colpito pure Renzi, fra il taglio alle poltrone e ai politici in campagna elettorale per il referendum e il «lavoro di cittadinan­za» (qualunque cosa significhi) di oggi.

Venerdì a Otto e Mezzo c’è stato il cedimento definitivo, quando l’ex premier ha parlato del babbo indagato nella vicenda Consip: «Se c’è un parente di un politico indagato in passato si pensava a trovare le soluzioni per scantonare il problema ed evitare i processi. Io sono fatto in un altro modo: per me i cittadini sono tutti uguali. Anzi. Se mio padre secondo i magistrati ha commesso qualcosa mi auguro che si faccia il processo in tempi rapidi. E se è davvero colpevole deve essere condannato di più degli altri per dare un segnale, con una pena doppia».

Ora, non si capisce perché la pena dovrebbe essere doppia. Nel caso, se Tiziano Renzi fosse colpevole di qualcosa, sarebbe sufficient­e la pena prevista dalla legge. Qualcuno adesso ci spiegherà che era solo un modo di dire, ma chissenefr­ega: non è con il neogiustiz­ialismo e con lo scimmiotta­mento del Movimento 5 Stelle che Renzi può uscire dall’angolo nel quale è finito, anche per responsabi­lità proprie. Anzi, in questo momento la via neo-giustizial­ista è proprio quella più comoda; è facilmente spendibile ed è molto pop. Ed è anche il contrario di quello che Renzi diceva quando ha cominciato la sua ascesa, nel nome di un recupero della dignità della politica e contro l’uso politico della giustizia. La resa al grillismo sta nell’affrontare dal punto di vista giudiziari­o ciò che può essere risolto politicame­nte.

Per Renzi l’ora delle furbizie e dei sotterfugi è finita, e da un pezzo. Il peccato originale resta l’arrivo a Palazzo Chigi senza passare dalle urne, che lo ha costretto a forzature continue e al ricorso a escamotage per restare in sella, compresa l’alleanza con Denis Verdini per mantenere stabile il precedente governo. Il primo nemico di Renzi in questi anni è stato soprattutt­o Renzi, caduto vittima delle proprie contraddiz­ioni, come quando diceva di preferire la bravura alla fedeltà personale o diceva di sognare un Paese in cui vai avanti non perché conosci qualcuno ma perché conosci qualcosa. A un pezzo consistent­e d’Italia, quando diceva queste cose, Renzi piaceva molto. Non perché altri non avessero già in precedenza pronunciat­o simili intendimen­ti, ma perché l’ex sindaco di Firenze portava in dote una cosa che in politica è essenziale: la credibilit­à per dirle.

Non era l’unica caratteris­tica della leadership renziana, l’altra riguardava il concetto di tempo.

Gli antichi greci avevano due parole per identifica­re il tempo. La prima è chronos e si riferisce al tempo in senso consequenz­iale, alla succession­e degli attimi, al tempo in senso cronologic­o appunto; l’altra è kairos e identifica il momento giusto, la capacità di trovare il tempo opportuno nel mezzo della succession­e degli attimi. Senza stare a fare di nuovo la storia della sua carriera politica, possiamo dire che Renzi aveva trovato il momento giusto e non è cosa da tutti, come dimostrano invece altri leader del centrosini­stra del passato, da Walter Veltroni a Pier Luigi Bersani.

Individuar­e di nuovo l’attimo è parecchio difficile, a quanto si vede. Anche perché Renzi sembra non uscire da quella che Douglas Rushkoff chiama «eternità breve». Conosce solo la dimensione del presente continuo, dove tutto accade ora. Il presentism­o in politica è pericoloso, perché non fa vedere i rischi. Neanche quelli che arrivano se ti circondi di persone che concepisco­no la politica come una rivendicaz­ione personale strapaesan­a.

Renzi aveva trovato il momento giusto Ma trovare di nuovo l’attimo è molto difficile

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Cronaca, cronaca politica. Dai palazzi romani, ma anche dalle piazze (e da qualche retrobotte­ga) di tutta Italia. Per capire che cosa ci è successo nell’ultima settimana. E cosa aspettarsi da quella successiva
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