Matteo e la carta del gentismo (ma non è un asso)
Dopo la vittoria del No al referendum, l’invecchiamento politico di Matteo Renzi si è fatto rapido, feroce, dolorosissimo. C’è un nuovo presidente del Consiglio, non c’è più un segretario del Pd, c’è un congresso di partito che rischia diventare quello di Magistratura Democratica, fra Renzi che ha il babbo indagato nell’inchiesta su Consip, Michele Emiliano, governatore-magistrato, che è testimone nella stessa inchiesta e Andrea Orlando che fa il ministro della Giustizia. Chi ha vinto, cioè il fronte del No, si è accontentato di disarcionare Renzi senza offrire — ed era prevedibile, vista la disomogeneità della «proposta» — niente per il dopo. L’importante era abbattere Renzi, il resto interessava poco.
Il risultato è un gigantesco vuoto politico. E come sempre accade, i vuoti in politica si riempiono subito. La pluridecennale storia politico-giudiziaria dell’Italia ci insegna che di solito ci pensa la magistratura a fare da supplente, a sostituirsi ai partiti (o a quel che ne resta). Il che, però, rende — ancora una volta — il lato politico più interessante di quello giudiziario. Il Renzi sconfitto dal referendum, anziché sparire per un po’ a recuperare qualche straccio d’idea, come gli è stato consigliato da più parti, è tornato a imperversare subito, tra blog, Instagram, tweet, Facebook, interviste televisive e cartacee, un florilegio di dichiarazioni insomma, la stessa logorrea che ha contribuito alla sconfitta del 4 dicembre. Il problema principale non è l’eccesso comunicativo, ma la mancanza di una proposta politica solida e il cedimento culturale al grillismo e al gentismo. Il gentismo, malattia infantile del populismo, è tutto intorno a noi e ha colpito pure Renzi, fra il taglio alle poltrone e ai politici in campagna elettorale per il referendum e il «lavoro di cittadinanza» (qualunque cosa significhi) di oggi.
Venerdì a Otto e Mezzo c’è stato il cedimento definitivo, quando l’ex premier ha parlato del babbo indagato nella vicenda Consip: «Se c’è un parente di un politico indagato in passato si pensava a trovare le soluzioni per scantonare il problema ed evitare i processi. Io sono fatto in un altro modo: per me i cittadini sono tutti uguali. Anzi. Se mio padre secondo i magistrati ha commesso qualcosa mi auguro che si faccia il processo in tempi rapidi. E se è davvero colpevole deve essere condannato di più degli altri per dare un segnale, con una pena doppia».
Ora, non si capisce perché la pena dovrebbe essere doppia. Nel caso, se Tiziano Renzi fosse colpevole di qualcosa, sarebbe sufficiente la pena prevista dalla legge. Qualcuno adesso ci spiegherà che era solo un modo di dire, ma chissenefrega: non è con il neogiustizialismo e con lo scimmiottamento del Movimento 5 Stelle che Renzi può uscire dall’angolo nel quale è finito, anche per responsabilità proprie. Anzi, in questo momento la via neo-giustizialista è proprio quella più comoda; è facilmente spendibile ed è molto pop. Ed è anche il contrario di quello che Renzi diceva quando ha cominciato la sua ascesa, nel nome di un recupero della dignità della politica e contro l’uso politico della giustizia. La resa al grillismo sta nell’affrontare dal punto di vista giudiziario ciò che può essere risolto politicamente.
Per Renzi l’ora delle furbizie e dei sotterfugi è finita, e da un pezzo. Il peccato originale resta l’arrivo a Palazzo Chigi senza passare dalle urne, che lo ha costretto a forzature continue e al ricorso a escamotage per restare in sella, compresa l’alleanza con Denis Verdini per mantenere stabile il precedente governo. Il primo nemico di Renzi in questi anni è stato soprattutto Renzi, caduto vittima delle proprie contraddizioni, come quando diceva di preferire la bravura alla fedeltà personale o diceva di sognare un Paese in cui vai avanti non perché conosci qualcuno ma perché conosci qualcosa. A un pezzo consistente d’Italia, quando diceva queste cose, Renzi piaceva molto. Non perché altri non avessero già in precedenza pronunciato simili intendimenti, ma perché l’ex sindaco di Firenze portava in dote una cosa che in politica è essenziale: la credibilità per dirle.
Non era l’unica caratteristica della leadership renziana, l’altra riguardava il concetto di tempo.
Gli antichi greci avevano due parole per identificare il tempo. La prima è chronos e si riferisce al tempo in senso consequenziale, alla successione degli attimi, al tempo in senso cronologico appunto; l’altra è kairos e identifica il momento giusto, la capacità di trovare il tempo opportuno nel mezzo della successione degli attimi. Senza stare a fare di nuovo la storia della sua carriera politica, possiamo dire che Renzi aveva trovato il momento giusto e non è cosa da tutti, come dimostrano invece altri leader del centrosinistra del passato, da Walter Veltroni a Pier Luigi Bersani.
Individuare di nuovo l’attimo è parecchio difficile, a quanto si vede. Anche perché Renzi sembra non uscire da quella che Douglas Rushkoff chiama «eternità breve». Conosce solo la dimensione del presente continuo, dove tutto accade ora. Il presentismo in politica è pericoloso, perché non fa vedere i rischi. Neanche quelli che arrivano se ti circondi di persone che concepiscono la politica come una rivendicazione personale strapaesana.
Renzi aveva trovato il momento giusto Ma trovare di nuovo l’attimo è molto difficile