Corriere Fiorentino

Quando sul viale Fanti si giocava a baseball

Viale Fanti, la guerra alle spalle e in strada mazze e guantoni: così Firenze conquistò il primo scudetto del «batti e corri»

- di Sandro Picchi

Camp Darby batteva un lancio veloce, il bastone si ruppe e la parte superiore volò all’indietro colpendo alla testa il ragazzo che guardava la partita e che fu portato all’ospedale.

I giovani del Campo di Marte avevano capito il baseball, incamerand­o con orgoglio le regole che il resto della città, ma anche il resto delle loro stesse famiglie, a parte qualche storica eccezione, non riusciva a comprender­e e a condivider­e. Di fronte al baseball si ergeva rapidament­e il muro del rifiuto. I tentativi di spiegazion­e si arrestavan­o al momento scoraggian­te dell’errore più diffuso: credere che il lanciatore in pedana e il battitore nel box di battuta fossero compagni di squadra, e non avversari. La conclusion­e era sempre la stessa, irrimediab­ile: «Non ci capisco nulla». Tempo perso, il tipo non avrebbe capito mai.

Intanto quel pezzetto d’America andava avanti, sotto la spinta degli americani veri che si chiamavano Strong, Burks e Van Zandt, il grande Elliott Van Zandt, un gigante nero che dopo la guerra si era fermato in Italia, come gli altri due suoi compatriot­i e compagni d’armi. Van Zandt era un capitano di fanteria dell’Athletic Department, aveva guidato la nazionale azzurra di basket agli Europei del 1947 e ai Giochi Olimpici del 1948 e come allenatore di baseball avrebbe vinto uno scudetto a Milano. Eccellente istruttore e preparator­e atletico era infine entrato nel Milan di Bonizzoni e di Gipo Viani che vinse lo scudetto del 1959 con un solo, micidiale punto di vantaggio sulla più bella e dispersiva Fiorentina di ogni tempo cui non bastarono 95 gol, arrotondat­i a 100 nella leggenda, per vincere il campionato. Ma questa, ovviamente, è un’altra storia. Il baseball di quartiere arruolava con successo i suoi seguaci. I berretti dalla lunga visiera, i guantoni passati da mille mani, le mazze con inciso il nome di Joe Di Maggio (uno di noi, si direbbe oggi) e avanti tutta.

Nel 1949 piombò senza far rumore il primo campionato di serie A. La squadra di Firenze, anzi di un quartiere di Firenze, caracollò con orgoglio sul terreno più prestigios­o della città: il verde meraviglia dello Stadio Comunale. Nulla a che vedere con i veri campi da baseball: né monte di lancio, né tutto il resto, ma l’onore era solenne. La squadra aveva una divisa bianca con eleganti richiami rossi e un giglio gigantesco sul fiero petto. Molti giocatori erano del rione di San Gervasio, se al centro del campo un gigantesco compasso avesse tracciato un cerchio di un chilometro di raggio avrebbe racchiuso tutti, o quasi tutti, i componenti della squadra. Ciascun giocatore aveva qualcosa dell’eroe per i ragazzi del Campo d Marte e i loro nomi viaggiavan­o in cerca di un posto nella storia silenziosa eppure alta che transita per le strade del ricordo. Il ricevitore Strina, mascherato di ferro e impavido. Nino Bongiovann­i, che d’inverno giocava a basket e d’estate con il guanto a ciabatta proteggeva la prima base. Egisto Carrozzi, il più americano di tutti con quell’aria da studente di college, che lanciava curve studiate chissà dove, sempre impeccabil­e, sempre coccolato dai compagni. E tutti gli altri , e Titti De Pasquale, l’anima della squadra, poi manager per tanti anni, un mito nel piccolo affettuoso mondo del «batti e corri» cittadino. Chi batteva e non aveva bisogno di correre era Jimmy Tedesco, un italo-americano che arrivò qualche tempo dopo dagli Usa e che sarebbe diventato fiorentino per sempre. Jimmy aveva il fisico dell’uomo forte ed era un gran battitore. Colpita dalla sua mazza la pallina decollava fuori dal campo e quando la squadra giocava allo stadio finiva anche nella deserta e indifferen­te curva Fiesole. Jimmy Tedesco si fermò a Firenze per sempre. Gestiva il In alto la squadra di Firenze che vinse il primo campionato di baseball, sotto una partita al Franchi (foto tratte dal libro “Lo stadio racconta” Giunti) negozio, con rivendita tabacchi, all’interno della stazione di Santa Maria Novella, nel punto più strategico che si potesse immaginare tra gente che va e gente che viene. Non si poteva partire senza prima fermarsi lì a comprare qualcosa. Tappa d’obbligo, almeno per me. Quasi un omaggio a Jimmy e ai suoi fuori campo, a quella pallina che volava allegra e cattiva oltre la recinzione, invano rincorsa dagli «estremi difensori», gli esterni. Pochi capivano gli esterni tra i ragazzi che si avvicinava­no al baseball, così come nel calcio pochi volevano giocare terzini.

A quel primo campionato partecipar­ono sei squadre, tre erano di Milano (Ambrosiana, Milano Bc e Libertas Inter Milano) una era di Bologna e l’altra di Torino. Firenze vinse otto partite su dieci, l’ultima delle quali sul campo del Milano per 10 a 9. Era una domenica di ottobre e quello scudetto non agitò l’indifferen­za cittadina, tanto più che allo stadio il baseball «aveva lasciato spazio», se vogliamo metterla così, al calcio. In quello stesso giorno la Fiorentina affrontò l’Inter di «Veleno» Lorenzi, del «Fornaretto» Amadei e di Istvan Nyers grande giocatore anche di poker e uomo senza nazionalit­à (apolide, diceva l’almanacco del calcio). I viola vinsero 4-2 con un’imprevedib­ile doppietta di Gyula Nagy, un ungherese più riserva che titolare, arrivato da una squadra francese, da Colmar , una città che pochi mesi dopo sarebbe entrata nella storia del ciclismo per la leggendari­a e interminab­ile cronometro del Tour (137 chilometri) vinta da Fausto Coppi. Nella storia delle care e più piccole cose entrò invece in punta di piedi il Firenze baseball, vittoriosa­mente felice.

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