I PENDOLARI DEMOCRATICI
Èstupefacente la risposta che Enrico Rossi ha dato l’altro ieri ad Alan Friedman durante la presentazione dell’ultimo libro del giornalista statunitense (Questa non è l’America) che è anche un grande conoscitore del nostro Paese. Alla domanda se sia ipotizzabile un ritorno del governatore della Toscana nel Pd in caso di vittoria di Andrea Orlando alle primarie, Rossi ha detto: «Se ne può discutere». Facendo intendere che una retromarcia è, se non altro, ipotizzabile. Le prime, incaute, smentite dello staff (i video parlano chiaro) e le successive precisazioni dello stesso governatore hanno finito con il rendere ancora più evidente ciò che era già chiaro. E cioè che la scissione e la nascita del Mdp sono state un mossa avventurosa senza basi di effettiva necessità. Una realtà politica nuova si avvia non perché ci si sente a disagio («Era una questione di dignità», ha specificato Rossi) in una formazione che attraversa una difficilissima fase congressuale, ma se si è in grado di offrire un programma alternativo basato su precise ragioni ideali. Un movimento non è un «gruppo di pressione». Assestare una botta rovinosa a una macchina malandata che si cerca di riparare è un atto irresponsabile. Ancor di più se si dà l’idea di apprestarsi a salire su un taxi da lasciare quanto prima, quando il tratto più irto di ostacoli sarà stato superato, in una sorta di imbarazzante pendolarismo. Molte delle osservazioni contenute nel pamphlet sulla «rivoluzione socialista» che Rossi ha scritto con Peppino Caldarola meritano riflessioni non frammentarie, a parte l’asse rétro dell’impianto. Perché allora non farle valere dentro il Pd, che resta il principale strumento col quale il centrosinistra può tentar di arginare la marea montante dei Cinque Stelle, in pericolosa sintonia con quanti puntano all’affermazione su scala europea di destre portatrici di ripiegamenti nazionalistici, di volgare demagogia, di rigurgiti razzisti? Perché non cercare di dar battaglia sulle scelte che stanno davanti all’Italia anziché, di fatto, favorire chi vuole mutare — come ha scritto Franco Camarlinghi — il congresso del Pd in un processo, dando il primo piano agli scandali veri o presunti, e indebolendo ancora la dimensione politica dei problemi Il fatto è che le adesioni al Mdp sono scarse e sporadiche. La stragrande maggioranza di coloro che volevano togliere a Renzi la leadership qui in Toscana sta preferendo d’impegnarsi, da dentro, in un Pd da ricostruire e allargare.
In coloro che hanno fatto questa scelta si avverte spesso la ripresa di vecchie parole d’ordine. Si indovina una ostinata ritrosia di fronte a taluni qualificanti obiettivi riformisti che Renzi ha avuto il merito di mettere sul tappeto. Ma dividersi sulla base di visioni ideologiche ereditate è il metodo più sicuro per andare verso una sconfitta storica. Il magma di energie che prende a riferimento il grillismo ha assunto sempre di più una oggettiva fisionomia di destra. I capi sbandierano con toni apocalittici una delegittimazione senza scampo della rappresentanza politica in quanto elemento portante della democrazia. Istanze sociali perlopiù irrealizzabili si mischiano a diktat gridati da dietro le quinte e imposti non si sa con quali procedure e risorse. Senza fare parallelismi fuori tono non è inesatto dire che la dinamica in essere assomiglia terribilmente a quella che creò le premesse della dittatura fascista, facendo credere che la demolizione dello Stato democratico sarebbe stata sostituita da un’infungibile e violenta «democrazia diretta». Così com’è ridotto il nostro Stato non soddisfa né le esigenze di sovranazionalità che discendono dalla revisione indispensabile dell’Unione europea né alla domanda di trasparente rigore riformista reclamato dall’opinione pubblica. E la corruzione da estirpare è giunta a intollerabili livelli sistematici. Ma se questa è la strada da percorrere non la s’intraprende scendendo dall’autobus e salendo su un taxi per una corsa di andata-ritorno. Occorre definire insieme una strategia non alimentata da esasperati contrasti intestini e sostenuta dalla voglia di cambiare, sperimentando con coraggio critico soluzioni inedite, oltre malcelati personalismi. Di qui l’esigenza di instaurare una dialettica ragionevole, capace di attrarre e ridare slancio e autenticità alla «rivoluzione liberal-socialista» che animò la nascita del Pd. Se tornare al Lingotto non è una trovata propagandistica è forse lecito sperare. Toccherà a Renzi in questo fine settimana fugare lo scetticismo che inevitabilmente accompagna chi sul Pd aveva investito la sua fiducia.