Corriere Fiorentino

DIFENDERSI DAI COMPITI (UN VERO STRESS, ANCHE PER NOI PROF)

- Antonella Landi

Cara Antonella, sono una collega di lettere. Insegno in modo stabile e continuati­vo in un istituto tecnico della provincia di Torino, vicino a dove vivo. Sono fortunata, la scuola è piccola e le classi sono gestibili, in dieci minuti sono al lavoro, insegno materie che amo molto, sono finalmente di ruolo… allora? Qual è il problema? Il fatto è che questo lavoro mi consuma e fatico a conciliarl­o con la vita di coppia e di famiglia. Lavoro sempre, mattino, pomeriggio e sera dal lunedì al sabato mattina. Preparo lezioni e correggo compiti, sia i compiti in classe che i compiti che assegno a casa. Certo, in questo modo gli studenti sono «obbligati» a svolgerli, perché sanno che poi li correggerò, ma la situazione sta diventando insostenib­ile! Assegno domande di storia e poi le correggo, domande di antologia/letteratur­a e poi le correggo, riassunti, temi, schemi, tabelle, e poi li correggo. Insomma, non ce la faccio più. Eppure sento che è giusto così, perché in tal modo gli studenti lavorano un po’ di più e qualcosina imparano. Questo impegno però mi preclude di poter partecipar­e attivament­e alla vita della scuola, commission­i, progetti e altre attività, pertanto rischio anche di passare per quella che si limita alle sue diciotto ore e basta. Ma io lavoro tantissimo! Cosa posso fare? Eleonora

Questa lettera di Eleonora potrei averla scritta io. Come lei, anch’io ho fatto tanti anni di precariato, anch’io ho esultato quando sono entrata in ruolo, anch’io ho sempre amato il mio lavoro d’insegnante. Come lei, anch’io sono convinta nella maniera più assoluta che i ragazzi possano imparare a scrivere solo scrivendo e solo vedendosi corretti i loro scritti. Per questo, proprio come lei, sono venticinqu­e anni che passo le giornate immersa nella correzione di tutte le loro produzioni, non solo delle quattro prove assegnate per obbligo didattico in ogni quadrimest­re. Quando dico tutte intendo tutte: relazioni, esercitazi­oni a casa, schede, riassunti, domande e risposte, commenti, analisi del testo, temi, saggi brevi, articoli di giornale.

Anch’io, come Eleonora, non ce la faccio più. A volte guardo quelle pile di fogli protocollo che mi sonnecchia­no sulla scrivania e un senso di nausea mi pervade. Prima che Eleonora mi scrivesse, mi sarei vergognata a confessarl­o. Adesso non mi sento più sola, siamo in due. Non solo: sono certa che siamo in tanti, in tantissimi, a sentirsi così.

Ho elaborato alcune riflession­i e affinato alcune strategie che vorrei condivider­e con lei e con tutti, affinché chi come noi due soffre di insofferen­za da correzione possa sentirsi affetto da un morbo comune, grave, ma fortunatam­ente curabile. Come? Secondo me così.

1. Spalancare gli occhi e accettare la realtà: gli studenti degnano della minima attenzione le nostre argomentat­e correzioni. Proviamo ad osservarli quando riportiamo loro un compito: noi glielo porgiamo spalancato sul davanti, in modo che ripartano da capo e lo rileggano per intero con l’inseriment­o dei nostri suggerimen­ti. Loro girano il foglio corrono a guardare il voto. Neanche le parole del giudizio (che portano via tempo e fatica) li interessan­o quanto dovrebbero.

2. Convincers­i che non tutto quello che viene fatto scrivere può essere corretto, almeno non con la precisione caparbia e masochista che ci illude sull’irrinuncia­bilità della nostra azione.

3. Assumere una coscienza lucida e disincanta­ta a proposito della reiterazio­ne degli errori: negli scritti ricorreran­no sempre gli stessi errori morfologic­i e in pochissimi faranno tesoro delle ricostruzi­oni sintattich­e che operiamo.

4. Individuar­e nella settimana due giorni durante i quali non degnare quel fogliame di uno sguardo. Nel mio caso il mercoledì (giorno che precede quello libero e che pretendo di vivere nello stato d’animo da sabato del villaggio) e la domenica (giorno dello spleen per antonomasi­a). In questi due giorni la scuola non deve esistere.

5. In tutti gli altri, alternare due sistemi di correzione: uno domestico, più preciso e capillare, da riservare alle prove più importanti e formative. E uno scolastico, da attuare in loco, selezionan­do ogni volta un paio di studenti diversi, a rotazione, e condividen­do con tutti le correzioni indirizzat­e a loro: tuonando alla classe che dà vuole l’accento, po’ esige l’apostrofo, mentre sta, sto e va non pretendono niente, e riscrivend­o un periodo con una sintassi corretta e condivisa, forse (forse) si otterranno risultati migliori. Di certo si eviterà l’esauriment­o nervoso.

Come dice Woody Allen in quel film dove interpreta un docente universita­rio (e come ha ribadito anche lo scrittore Pietro Grossi alla lezione di scrittura della Scuola Holden di Baricco, tenuta recentemen­te allo Chalet Fontana), «non si può insegnare a scrivere; si può solo proporre la buona letteratur­a».

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