Il pentito dei Georgofili
La sociologa Alessandra Dino racconta i suoi incontri con il mafioso Gaspare Spatuzza «Nella sua scelta di parlare coi magistrati hanno inciso le due piccole vittime della strage di Firenze»
C’è il boss mafioso e il collaboratore di giustizia, il prima e il dopo di un personaggio complesso in «A colloquio con Gaspare Spatuzza. Un racconto di vita una storia di stragi» di Alessandra Dino
L’autrice ne parla oggi alla Red di piazza Repubblica alle 18,30 con Giovanna Maggiani Chelli e Danilo Ammannato
Spatuzza chiede a Giovanna Maggiani Chelli di concedergli il perdono. Lei risponde no. Quello che gli può dare è un incoraggiamento: «ti crediamo», «ti chiediamo di andare avanti» nel percorso di pentimento e di collaborazione con la giustizia. È il massimo di ciò che la presidente dell’Associazione familiari vittime della strage di via dei Georgofili si sente di concedere a uno dei principali responsabili di quello e di tanti altri orrori mafiosi. Ma sempre senza «entrare nel merito della sua conversione».
In questo passaggio di informazioni, ma soprattutto di emozioni, c’è tanto di Gaspare Spatuzza per come lo ha vissuto attraverso nove blindatissimi incontri in carcere la sociologa e docente Alessandra Dino. Autrice del ritratto di un assassino «capace di sciogliere corpi nell’acido mangiando un panino alla mortadella» e al tempo stesso di «mettere in crisi l’intera architettura della sua vita mafiosa perché non riconosceva alcune morti come logiche, sensate, pertinenti rispetto alla pur perversa “sensibilità” di criminale». Da quelle lunghe e complesse conversazioni e i tanti caffè bevuti insieme è nato un libro edito da Il Mulino nel 2016: A colloquio con Gaspare Spatuzza – Un racconto di vita, una storia di stragi che oggi alle 18 l’autrice presenta alla Feltrinelli Red insieme a Danilo Ammannato e, appunto, Giovanna Maggiani Chelli. E proprio la strage di via dei Georgofili assume un ruolo chiave, se non quantitativamente rilevante nell’economia della ricostruzione della sua vita operata da Alessandra Dino, ma estremamente importante sul piano simbolico: «Sono tre i momenti cardine che provocano in Spatuzza un cambio di rotta — spiega la criminologa e docente di Sociologia giuridica e della devianza all’Università di Palermo — il suo percorso personale di cambiamento e conversione: l’omicidio di padre Puglisi, il sequestro del giovane Giuseppe Di Matteo, strangolato e sciolto nell’acido dopo 25 mesi di prigionia, con Spatuzza che fece parte di quel commando, e l’attentato ai Georgofili, specialmente per la morte delle due bambine piccole». Sono morti che «non ci appartengono» dirà infatti al boss Giuseppe Graviano. Con quel «ci» che sta a significare che non appartengono alle logiche di mafia per come lui le conosceva e interpretava. «Finché uccidiamo magistrati è un conto — pensa Spatuzza, riporta Dino — ma di fronte alle vittime innocenti, o fuori dall’interpretazione del “lavoro di malavita” per come lui lo viveva, c’è qualcosa che non funziona più». Per questo quelle morti «lo colpiscono intimamente, sono tre fratture del suo sistema di vita e di pensiero che lentamente iniziano a portarlo su un’altra strada».
I Georgofili, dunque, come molla psicologica che all’improvviso scatta e cambia tutto, il chiavistello finale che porta allo spalancarsi di una porta sempre più scricchiolante, quella dell’anima tormentata, ma fino a un certo punto, di un pentito che è entrato in Cosa Nostra «all’età di dieci anni, per vendicare il fratello ucciso». Perché Gaspare Spatuzza, prosegue Dino, ci arriva in parte per gradi e in parte per scossoni: «Piano piano si rende conto che le cose in cui aveva sempre creduto non erano più così vere, reali, perde fiducia nei confronti del sistema che ha intorno, di Graviano in particolare». Tanto che quando viene arrestato in ospedale a Palermo nel luglio 1997 e la polizia gli spara per fermarlo «lui inizialmente teme che sia un agguato mafioso, ha paura per la sua vita, ha preso coscienza della sua situazione di precarietà all’interno dell’organizzazione».
Quella di Spatuzza ci viene restituita come una «personalità complessa» che racconta «in modo asettico, distaccato, il suo mestiere di killer». È capace di «minuziose ricostruzioni nel raccontare la preparazione della strage, la macinatura dell’esplosivo, il trasporto con il camioncino fino a via dei Georgofili, la perlustrazione prima della bomba» ma è anche l’uomo a cui «dobbiamo la riapertura del processo per l’attentato di via D’Amelio e l’aver chiamato in gioco figure come Dell’Utri e Berlusconi». È la storia di una figura «che per me rappresenta la massima espressione della definizione di banalità del male di Hannah Arendt — prosegue Alessandra Dino — Una personalità ricca di tante sfaccettature, capace di momenti di grande vicinanza, che mi ha raccontato i suoi sogni su Giovanni Falcone, mi ha regalato un libro con dedica per Natale, che mi ha fatto visitare la sua biblioteca e mostrato un suo dipinto, mentre magari subito dopo si chiudeva in se stesso senza poter o voler rispondere, messo di fronte alle sue contraddizioni».
Racconto di vita, storia di stragi recita il sottotitolo. Infatti il libro della professoressa Dino è principalmente un’accurata ricostruzione di fatti, rigidamente formale, attenta, senza nessun cedimento all’interpretazione psicologica, senza mai indugiare su aspetti etici. «Per mantenere separate le osservazioni sulla credibilità della storia che mi raccontava da una parte e il suo percorso personale di cambiamento dall’altra».