Storia (e storielle) d’Italia
Da Cavour a oggi, Giancarlo Perna racconta il nostro Paese in 129 pagine da leggere in un’ora Le corse dei bersaglieri, gli affanni del debito pubblico. E in mezzo il purgatorio di Firenze Capitale
Enrico Mattei era un fior di giornalista che il Novecento lo ha vissuto da par suo. Orbene, sosteneva che la storia d’Italia è noiosa, mentre le storielle d’Italia sono quanto di più divertente si possa immaginare. Giancarlo Perna lo ha preso in parola. Difatti la sua Storia d’Italia in un’ora edita dalla fiorentina Clichy, 129 pagine da leggere in 60 minuti, è una miniera di aneddoti sovente ignoti anche agli storici per diletto. E poi si raccomanda per il suo stile brillante e per un potere di sintesi degno di un Prezzolini. Per chi non lo sapesse, l’autore di questo aureo libriccino è stato la croce e la delizia di un mostro sacro del giornalismo come Montanelli, che lo ha avuto per molti anni nella sua ciurma. Ogni volta che un politico influente ne chiedeva la testa per i suoi articoli al vetriolo, il mitico direttore del Giornale rispondeva allo stesso modo: «È vero, Perna è un matto, un matto da legare. Ma non posso licenziarlo perché è troppo bravo».
Perna dice che i primi passi dell’Italia unita furono passi da bersagliere. Roba da tempi moderni, per intenderci. È passata alla storia la famosa frase di D’Azeglio secondo cui «l’Italia è fatta, ora bisogna fare gl’italiani». Ma poco prima, sgomento, aveva affermato che «la fusione con i napoletani mi fa paura come mettermi a letto con un vaioloso». Cavour «a una sposa propria preferì le mogli altrui». Agricoltore per passione al pari del toscano Ricasoli, come lo saranno Einaudi e Malagodi, quando Cavour muore il Re impedisce ai figli di partecipare ai funerali. E molti — da Mazzini a Garibaldi — faranno scena muta. Addirittura Cattaneo, contrario all’Unità sotto i Savoia, esclama che era morto un idiota. A riprova che Nemo propheta in patria. E si tratta del più grande statista che l’Italia abbia avuto.
Con la Convenzione di settembre del 1864 la Capitale passa da Torino, dove scontri con le forze dell’ordine provocano un centinaio di morti, a Firenze. Vittorio Emanuele II, sconcertato da questi disordini, parte alla volta della città gigliata il 3 febbraio del 1865 di buon mattino. Arriva in treno alla stazione di Firenze in tarda serata, alle 22,30, dopo aver scavalcato l’Appennino grazie a quel fiore all’occhiello ingegneristico che è la Porrettana. La città è imbandierata, le autorità sono pronte ad accogliere con entusiasmo Sua Maestà e la folla plaude di continuo. Ma per Firenze fu un affare? Sì e no. Sì, perché nella storia dell’Italia unita rimane una delle tre Capitali. No, perché l’incremento della popolazione e gli sventramenti comportano un’infinità di problemi. E Perna non sottovaluta queste ombre.
Afferma che per sistemare il caravanserraglio governativo «Firenze, nei cinque anni del suo purgatorio, passò da 116.367 a 194.001 abitanti. Quasi ottantamila persone al ritmo di 15.500 l’anno, che vuole dire un paio di quartieri nuovi ogni dodici mesi. Il passato veniva travolto, con disperazione di molti, a cominciare dai pittori macchiaioli che vedevano sparire giorno dopo giorno le loro vedute preferite». E i ricchi e colti stranieri — tedeschi, inglesi, svizzeri — s’indignarono per le demolizioni e si sentirono depredati da un pezzo di se stessi. Ma l’Italia continua a correre alla bersagliera. Perde la terza guerra d’indipendenza per terra e per mare ma vince la pace con l’acquisto del Veneto. L’ammiraglio Tegetthoff, il vincitore di Lissa, ironizzò: «Navi di legno con uomini di ferro hanno sconfitto navi di ferro con uomini di legno». E Roma cade di lì a poco come un frutto maturo dall’albero.
È la volta prima di Depretis, un Andreotti ante litteram che si mantiene al potere grazie a quell’inciucio che va sotto il nome di trasformismo. Poi avremo Crispi, un repubblicano convertito alla monarchia che scivola sullo scandalo della Banca romana e perde il potere dopo la sconfitta di Adua. Bigamo e tormentato dall’ultima moglie, Lina, che diffidava il maggiordomo dal portare a don Ciccio donne di piacere. E infine Giolitti, che — ben sottolinea Perna — «decise subito cosa fare: niente». Durante l’occupazione delle fabbriche, a Giovanni Agnelli che lo invitava a darsi una mossa per sbloccare il suo stabilimento Fiat, Palamidone rispose ironico: «Benissimo, darò ordine all’artiglieria di bombardarlo». E la cosa finì lì. La Grande Guerra si conclude con una vittoria mutilata. Ciò nondimeno, avremo Trento, Trieste e l’Alto Adige. Il Bollettino della Vittoria, che contiene una sgrammaticatura, termina con la sottoscrizione «Firmato Diaz». E, scambiandolo per il nome del Generalissimo, tra il popolino c’è chi battezza il proprio figliolo «Firmato».
La marcia su Roma Mussolini la fa in vagone letto nella notte tra il 29 e il 30 ottobre 1922. Al capostazione dice: «Voglio partire in perfetto orario. Tutto, da ora, dovrà funzionare alla perfezione». Se ci fosse il babbo, mormora compiaciuto al fratello Arnaldo. Tutto fila liscio perché Vittorio Emanuele III nega lo stato d’assedio. Diaz gli dice che nel caso di uno scontro con le camicie nere, l’esercito avrebbe fatto il suo dovere. Però, soggiunge, sarebbe meglio non metterlo alla prova. Ma sì, esclama il Re, sperimentiamoli per qualche settimana. E il fascismo, tra alti e bassi, dura un ventennio. Per indisposizione del dittatore la democrazia si replica, afferma quella lenza di Longanesi. E tra i grandi del dopoguerra ha un posto di primo piano un mezzo toscano, l’aretino Amintore Fanfani, «volitivo e testardo». Più volte sugli altari e più volte nella polvere. Ma lasciamo la parola a Perna: «In tutte le cucine troneggiava la Moka Bialetti, la caffettiera per un espresso coi fiocchi e il marchio con l’omino coi baffi. Quest’omino era l’immagine spiccicata di Fanfani e non c’era italiano che non gli torcesse volentieri il collo avvitando la Moka per metterla sul fornello». Siamo ai titoli di coda. Non sappiamo come finirà. Abbiamo una sola certezza: il debito pubblico è arrivato alle stelle, la bellezza di 38.300 euro a testa, poppanti inclusi. E a pagare saranno i nostri nipoti.
Ora, ditemi voi se l’antico direttore della Nazione non avesse ragione da vendere. E sì, le storielle d’Italia – se sorvoliamo sul finale di partita – sono davvero divertenti.
Cavour? A una sposa propria preferì le mogli altrui Depretis? Fu un Andreotti ante litteram