Quei profughi diventati pusher e le colpe dell’assistenzialismo
OLTRE L’ACCOGLIENZA
In Italia abbiamo un modello di accoglienza assistenzialista, che non ha niente da invidiare sul fronte del primo soccorso, ma è un vero disastro in tema di integrazione.
Nelle decine di centri di accoglienza che ho girato in tutta Italia ho visto tantissimi richiedenti asilo bighellonare nei corridoi. Non sono svogliati, non tutti: è l’inefficacia del nostro sistema di accoglienza che trasforma i profughi in larve. Tanti migranti vorrebbero lavorare, ma trovare un lavoro resta per loro un’utopia. Ed è facile che, per racimolare qualche spicciolo, finiscano per entrare nella spirale del lavoro nero o, peggio ancora, nelle maglie dell’illegalità.
E nel frattempo magari, coordinati dalle cooperative che gestiscono l’accoglienza, svolgono quei lavori di pubblica utilità al servizio dei Comuni: siepi da tagliare, giardini da rastrellare, muri da verniciare. Certamente un importante servizio sul fronte dell’integrazione, ma che nel lungo periodo evidenzia tutta la sua sterilità e non garantisce autonomia ai profughi.
E pensare che tutte queste braccia, vigorose e volenterose, costituirebbero una risorsa preziosissima per la nostra economia. Non è buonismo, è utilitarismo. A tal fine, con l’entrata in vigore del decreto legislativo 142 dell’agosto 2015, il Governo ha varato una nuova normativa che permette ai richiedenti asilo di svolgere attività lavorativa retribuita, cosa fino ad allora impossibile per legge. Eppure questa normativa non viene sfruttata, e sono pochissimi i profughi che effettivamente lavorano.
Colpa innanzitutto dei tempi biblici della nostra giustizia: i profughi devono attendere fino a due anni per avere risposta alle loro domande di asilo politico. Nel frattempo, pensano molti di loro, perché dovrei lavorare se poi rischio di essere espulso? Tanto vale far soldi in attività illegali, tanto se mi arrestano, mi rimettono in libertà dopo due giorni.
Questione di impunità, ma non solo. La responsabilità è soprattutto del nostro sistema di accoglienza, che delega la professionalizzazione dei migranti al caso, al presunto spirito solidale delle cooperative sociali che gestiscono i centri di accoglienza. Trentacinque euro al giorno per ciascun migrante nelle casse di queste associazioni. In cambio, lezioni di italiano e corsi di formazione (facoltativi). In Germania, che nel 2015 ha accolto un milione di migranti, è diverso: i migranti hanno l’obbligo di frequenza nei corsi di lingua, cultura e legislazione tedesca, che si tengono quasi tutti i giorni, con tanto di verifiche di apprendimento. E poi, anche in Germania, lavori di pubblica utilità, ma con piccole somme di denaro in cambio delle mansioni svolte. In Italia invece no, quando lavorano lo fanno gratis e i corsi professionali ci sono una tantum.
Così è difficile invogliare e responsabilizzare i profughi. Non stupiamoci se poi li ritroviamo per le strade o nelle vigne. Certo è, va detto, che non ci può essere alcuna giustificazione sociale alla delinquenza: quando qualcuno commette un reato, ne deve rispondere personalmente. Ma è altrettanto vero che, con tutti i soldi intascati dalle cooperative (circa 150 milioni nell’ultimo anno soltanto a quelle toscane), si potrebbe e si dovrebbe fare di più. Non basta l’assistenzialismo. Dovremmo essere capaci di sfruttare questa grande occasione: sul nostro Paese abbiamo quasi 200 mila profughi che implorano di lavorare (12 mila in Toscana), ma rischiano di diventare «straccioni». Tocca allo Stato razionalizzare e ottimizzare i fondi, affinché i profughi diventino una risorsa, invece che una minaccia. Le strade per cogliere questa opportunità esistono, basterebbe avere il coraggio di percorrerle.