QUELL’ARCO DI PALMIRA? PICCOLO E IMPERFETTO
Caro direttore, la ricostruzione dei monumenti distrutti dall’Isis, dalle imponenti testimonianze dell’architettura d’Assiria a Ninive e a Nimrud ai templi, al teatro, al colonnato e alle torri funerarie di Palmira, dalle chiese cristiane alle moschee sciite e ai mausolei sunniti d’Iraq e di Siria, è problema complesso.
Un problema che nello strazio infinito delle popolazioni offese nella umana dignità e decimate barbaramente, non può che essere affrontato secondo la definizione di Irina Bokova, direttrice generale dell’Unesco, per cui la lotta per le vite umane e le pietre dell’arte è un’unica lotta contro un’inammissibile barbarie. Il dilemma, che si pose drammaticamente dal 1945 per insigni monumenti d’Europa distrutti durante la Guerra Mondiale, è nell’alternativa tra lasciare le rovine come denuncia di un’infamia e restituire la realtà fisica di opere tra le più significative dell’architettura europea. La stessa alternativa, cui quasi sempre si rispose allora scegliendo la seconda soluzione, da Dresda al Peterhof presso San Pietroburgo fino all’Abbazia di Montecassino e alla basilica di San Lorenzo a Roma, anche se per la Cattedrale di Coventry si è optato per la prima soluzione, si pone oggi, inaspettatamente, ai due Paesi più martirizzati dalle distruzioni e alla comunità internazionale per i monumenti di Siria e di Iraq. Oggi, dovunque sia disponibile una documentazione grafica, fotografica e fotogrammetrica esauriente, la scelta non può che essere quella di ricostruire i monumenti nello stato in cui erano al momento della distruzione per mezzo di restauri tradizionali per quanto possibile e di integrazioni di elementi strutturali e decorativi perduti sulla base delle tecniche 3D più avanzate, perché siano restituite nella loro piena fisicità ai popoli di Siria e di Iraq tutte le testimonianze della stratificata multiculturalità che caratterizza la loro storia. Questa scelta di civiltà sarà condivisa se le ricostruzioni saranno filologicamente impeccabili, come è avvenuto, nella mostra «Rinascere dalle distruzioni» tenuta al Colosseo nei mesi scorsi con il patrocinio dell’Unesco, per tre restituzioni realizzate a scala naturale per la sala degli archivi del Palazzo reale di Ebla del XXIV secolo a.C., per uno dei giganteschi tori androcefali del Palazzo di Assurnasirpal II di Nimrud del IX secolo a.C. e per un settore del soffitto scolpito della cella del Tempio di Bel di Palmira del I-II secolo d.C. Queste ricostruzioni hanno inteso mostrare al pubblico quali sofisticate tecniche possano essere impiegate, quali risultati rilevanti possano essere conseguiti e quali procedure potranno essere usate nelle restituzioni sui luoghi stessi delle distruzioni. Interventi così complessi e delicati potranno essere realizzati per le ricostruzioni dei monumenti distrutti rispettando tre principi fondamentali: l’iniziativa e la formulazione dei progetti non potranno che essere dei Paesi dove le opere si trovavano, la Siria e l’Iraq; il controllo e la ratifica scientifica dei progetti dovranno essere effettuati dall’Unesco mediante apposite commissioni di esperti; la realizzazione dei progetti sarà il frutto di un’auspicabilmente ampia collaborazione internazionale di Paesi che vorranno intervenire. La programmata esposizione dal 27 marzo in piazza della Signoria della riproduzione dell’arco della via colonnata di Palmira, già esibito a Trafalgar Square a Londra nell’aprile 2016, per le giornate del G7 della Cultura a Palazzo Vecchio, è importante come doveroso richiamo alle autorità mondiali su una tragedia dei nostri tempi su cui non può scendere l’oblio. Ma la riproduzione, per la scala ridotta, per imperfezioni non secondarie, per il colore approssimativo, non è in linea con il rigore necessario per le future ricostruzioni. Firenze e piazza della Signoria meritavano di meglio.