L’OPERA INCOMPIUTA
Se c’è un tema politicamente incandescente questo è l’organizzazione, la gestione e il finanziamento dei teatri d’opera. In Italia dal 1996 i vecchi enti lirici si sono trasformati in fondazioni liricosinfoniche, ovvero persone giuridiche di diritto privato. Eppure lo Stato mantiene ancora un ruolo predominante nella vita delle nuove istituzioni. Sia sotto il profilo organizzativo, sia sotto il profilo del finanziamento. Quanto al primo aspetto ne è prova il fatto che la carica del presidente della fondazione sia rivestita dal sindaco della città. Un legame, quello con la politica, che meriterebbe un ripensamento, sia perché i nuovi enti sono oggi regolati dal diritto privato, sia perché, come regola, sarebbe auspicabile che la politica restasse estranea rispetto a scelte tecniche delicatissime come, ad esempio, la nomina di un sovrintendente. Quanto al secondo aspetto, tutte le fondazioni lirico-sinfoniche risultano fortemente dipendenti dal finanziamento pubblico. Si tratta di una delle scommesse perse della nuova normativa. Ovvero affrancare le nuove istituzioni dalle sovvenzioni pubbliche e renderle più capaci di attrarre capitali privati. Ma ciò è avvenuto solo in parte. Le sovvenzioni pubbliche — elargite dallo Stato, dalle Regioni e dagli enti locali — sono infatti sempre preponderanti, mentre il ruolo dei privati nel finanziamento è ancora decisamente limitato. Ad onor del vero non si tratta di una prerogativa italiana, considerato che anche in Paesi come la Francia e la Germania i sovvenzionamenti pubblici si attestano intorno all’80%.
Insomma le entrate proprie delle fondazioni sono, purtroppo, una voce ancora poco significativa. Eppure le potenzialità sarebbero moltissime. Non solo i ricavi provenienti dalla vendita di biglietti e abbonamenti ma anche tutti quelli connessi ad attività commerciali. Come la vendita di cd audio, dvd, trasmissioni (televisive e online); la vendita di pubblicazioni, materiale fotografico, programmi di sala; i proventi ricavati dai servizi di ristorazione e guardaroba; quelli ricavati dal noleggio della sala del teatro o del foyer per eventi.
Non mancano in Italia esperienze virtuose: una su tutte la Scala di Milano, dove le entrate proprie coprono oltre il 30% dei finanziamenti.
E Firenze? Qui c’è ancora un bel po’ da fare.
A partire dalla vendita di biglietti e abbonamenti. Un problema che ci portiamo dietro da molti anni e che con la costruzione del nuovo Teatro dell’Opera è emerso in tutta la sua evidenza. Un’opera imponente che è costata una montagna di soldi (pubblici), che ancora deve essere completata e di cui avremmo potuto fare certamente a meno, considerata la situazione debitoria che il Maggio si portava dietro.
E allora che fare adesso? Come potenziare le presenze di pubblico? Innanzitutto occorre ripensare strategicamente la programmazione, con una politica artistica che riesca a coniugare, sapientemente, qualità e quantità, ovvero il «modello di produzione a stagione» (rinnovo del cast per ogni spettacolo), con quantità, ovvero il «modello di repertorio» (stesso cast per tutte le opere e in concerti). La qualità è ovviamente essenziale. Secondo gli economisti (come Alessandro Petretto) gli spettacoli lirici e sinfonici hanno una domanda molto elastica rispetto alla qualità, ma rigida rispetto al prezzo. Per cui si perde clientela se gli spettacoli sono scadenti ma non si perde aumentando il prezzo al botteghino, a parità di qualità.
Ma la qualità non è affatto incompatibile con la quantità. È sorprendente infatti che con il gigantesco flusso turistico che conosce da sempre la nostra città al teatro non vi sia la possibilità di fare il «pienone», magari di pomeriggio (e perché no di mattina) con repliche e produzioni di repertorio attraverso mirati strumenti di comunicazione e anche con il coinvolgimento dei tour operator. Come avviene, del resto, in tante città del mondo ed anche in Italia.
Ma tutto ciò è connesso anche al cosiddetto appealing dell’istituzione. Che, purtroppo, non ne ha molto. A partire dalla sua location, turisticamente infelice. E dalla sua struttura ed organizzazione. Basti pensare al foyer dell’Opera, ovvero il suo biglietto da visita, che si presenta attraente alla pari di un ingresso di un ospedale o di una sala d’aspetto di una stazione ferroviaria. Senza fiori, carente di punti di aggregazione, priva di charme. O si pensi alla mancanza di servizi di ristorazione, come un bar e un ristorante degni di questo nome. Come è possibile che, ad anni dalla sua inaugurazione, non si sia ancora riusciti ad attribuire, con una gara d’appalto, la ristorazione del teatro ad un qualche bravo operatore del settore? Che per prendere un caffè si debba fare una fila di mezz’ora col rischio anche di non berlo perché l’intervallo, nel frattempo, è terminato? O che finito lo spettacolo si debba cercare in giro per la città una pizzeria aperta perché il Teatro chiude i bandoni?
Eppure ci vorrebbe così poco. Buon senso e coraggio. Come quello di richiedere al pubblico minime regole di condotta come, ad esempio, di andarci vestiti, in modo adeguato. Se non proprio in giacca, come si converrebbe, quantomeno non in bermuda o addirittura in ciabatte. Un dress code di rispetto e di buona educazione per il luogo e, soprattutto, per gli orchestrali che, come da tradizione, si presentano in frac e abito lungo. E non si dica, per favore, che questo significherebbe discriminare o rendere elitaria la fruizione di un servizio pubblico, come è la cultura, che deve essere accessibile a tutti. Nessuno infatti oserebbe presentarsi in ciabatte alla laurea del proprio figlio o al battesimo del proprio nipote (!). Anche su questi aspetti si gioca l’appealing di una istituzione che si vuole rilanciare a livello internazionale, che vuole attrarre investitori e partners, e che ha l’ambizione di rappresentare il nuovo tempio della musica nella città patria della cultura, del rinascimento e, per l’appunto proprio dell’opera. Gli ingredienti essenziali non mancano. A partire da una straordinaria orchestra. Per il nuovo Sovrintendente, in arrivo da Venezia c’è, davvero, una bella partita tutta da giocare. Non resta che augurargli buon lavoro.
Soluzioni Occorre ripensare strategicamente la programmazione, unendo sapientemente la qualità e la quantità delle proposte musicali