Al Franchi in 95 mila, per l’ultima di Piola
Italia-Inghilterra, ultima gara in azzurro del mito Silvio Piola E l’allora Comunale si riempì come non sarebbe più successo
Dalla finestra della casa mai dimenticata, nel viale Manfredo Fanti, gli occhi di un ragazzino (i miei, lo ammetto) videro l’uomo zoppicante correre più veloce degli altri. Erano le 10 di un mattino con molto sole e le «autorità competenti» avevano deciso l’apertura dei cancelli dello stadio con largo anticipo sull’orario di inizio di quella sarebbe stata la partita con più spettatori nella storia del Comunale: Italia-Inghilterra del 1952. Correvano di buon mattino i tifosi per conquistare il miglior posto possibile in curva Fiesole, dopo che erano state aperte le transenne che bloccavano via Volturno. Correvano per vedere una partita che sarebbe cominciata alle quattro del pomeriggio. Correvano verso sei ore di attesa.
Ma come si era arrivati a tanto e a un così incredibile «concorso di pubblico» (i giornali parlarono addirittura di 95 mila spettatori) per quella che in fondo era soltanto una partita amichevole? Era un calcio senza tv, chi voleva vedere la partita non aveva altra scelta che andare allo stadio, ma questo non giustifica del tutto la colossale partecipazione di folla per una gara amichevole, seppure di prestigio come quella contro i «maestri inglesi», che per anni avevano isolato il loro calcio ritenendo sconveniente la partecipazione ai Mondiali e che, quando si erano finalmente concessi al grande gioco per il titolo di campioni (anno 1950), avevano subito una storica sconfitta da parte degli Stati Uniti. Nei primi anni ‘50, ecco il motivo del pubblico record, una partita della Nazionale non era mai un’amichevole e l’Inghilterra rappresentava un richiamo tale da giustificare l’imponente affluenza di spettatori.
Altri tempi, altro calcio. La radio trasmetteva in diretta la cronaca del secondo tempo di una partita di serie A affidandosi alla voce affascinante di Nicolò Carosio che ogni tanto interrompeva il suo fluente resoconto per fornire “i risultati parziali dagli altri campi”. Guai a distrarsi: c’era il rischio di non afferrare il punteggio della propria squadra del cuore e, dunque, di essere costretti ad aspettare la prossima sventagliata, quando Carosio avrebbe di nuovo mitragliato nel microfono gli aggiornamenti. Tutto sarebbe cambiato dopo qualche anno e niente sarebbe più stato così teneramente poco. Poco di tutto. Nelle case si dividevano le spese del telefono con un altro abbonato, sottoscrivendo il contratto duplex e risparmiando il 38% sul canone, ma se alzando la cornetta si udiva il segnale di occupato significava che il «socio» nel duplex stava usando l’apparecchio. E se era un chiacchierone, o una fanciulla innamorata, potevano trascorrere interminabili minuti prima che la linea si liberasse. Di solito si mandava in missione al piano di sopra il figlio piccolo, che faceva sempre tenerezza: «La mia mamma ha bisogno del telefono». Così andava il mondo.
Firenze, torniamo alla partita record, era percorsa da un’attesa che aveva gli aspetti di un’invasione. Lo stadio era stato ampliato, oggi possiamo dire pericolosamente ampliato — con tribune aggiuntive sulla pista di atletica in Maratona, davanti alla tribuna e nelle curve — e la sua capienza ufficiale di 70 mila spettatori era stata aumentata. Nonostante ciò la cifra di 95 mila presenze rimane un dato clamoroso pur tenendo conto che non esistevano zone di rispetto, né vie di fuga, né degenerazioni del tifo e aggiungendo il fatto che la sicurezza era un optional e che per cattiva consuetudine si riempivano gli stadi oltre il consentito. La Gazzetta dello sport convalidò il dato dei 95 mila spettatori specificando che i biglietti venduti erano stati 84 mila, per un incasso di 65 milioni di lire. Lo stesso dato comparve anche su Stadio, sulla Nazione e su altri quotidiani. La folla di sportivi «riversatasi in città» era talmente numerosa che le disposizioni di polizia consentirono ai locali pubblici, ai bar, ai ristoranti, ai cinema di rimanere aperti tutta la notte. Il motivo? «Offrire un minimo di conforto ai molti senza tetto». Al Parterre, in piazza della Libertà, i due ristoranti ricevettero l’ordine superiore di chiudere all’alba e perfino gli Uffizi rimasero aperti «fino a tardissima ora». La partita, finalmente. Gli inglesi avevano la loro austera divisa con quei «mutandoni» lunghi sui quali ironizzava la gente, abituata a vedere i nostri calciatori vestiti in un altro modo. In realtà gli inglesi del 1952 erano di un’eleganza fuori concorso, con la loro vanitosa semplicità. La formazione aveva nomi fascinosi, come un cast cinematografico: Tom Finney, Billy Wright, Nat Lofthouse, Alf Ramsey. Finney, un’ala dal tratto delicato, era di Preston e avrebbe giocato per sempre nella squadra della sua città, come se ne fosse il principe. Nell’Italia c’era ancora Silvio Piola, un mito di 39 anni che ingrandiva il piccolo Novara, pieno di vecchie lenze dai cognomi senza eredi calcistici: Cernuschi, Russova, Pombia, Baira. Erano duri il giusto.
Alto, di schiena un po’ curva, coraggioso e potente, Piola era un simbolo del calcio italiano. La gente era venuta apposta per lui, per vederlo un’ultima volta in maglia azzurra. Giocava in A dal 1930, evitava il mare, amava i cani, aveva inventato una rovesciata tutta sua e aveva seminato molti gol nei campi di pallone, il più famoso con la mano malandrina proprio agli inglesi nel 1939. Era stato campione del mondo e aveva dedicato i suoi anni migliori alla Lazio per trascorrere poi nel Novara un lungo, dignitoso, romantico finale di carriera della durata di sette anni, dal 1947 al 1954. Quella di Firenze fu la sua ultima partita in Nazionale: giocò benissimo, ma non segnò. Gino Cappello, genio indolente del Bologna, non si scansò a tempo su un tiro dell’intramontabile Piola che sembrava destinato in porta.
La partita? Gli inglesi segnarono dopo appena quattro minuti con la mezzala Broadis, Amadei, che portava le cavigliere sopra i calzettoni ed era un idolo del Napoli, pareggiò nella ripresa. Finì uno a uno e gli spettatori in lunghissima fila se ne andarono. Con il passare del tempo e degli anni il loro numero fu ridimensionato dall’Almanacco Panini, calcistica Bibbia, che lo ridusse a 60 mila, ritenendo che lo stadio di Firenze, oggi omologato per 43.286 presenze, non potesse aver ospitato «almeno» 85 mila persone. Eppure erano tanti quel giorno gli spettatori, talmente tanti che qualcuno dei passanti che percorrono oggi il viale Manfredo Fanti potrebbe essere uno di loro, uscito un po’ in ritardo.