Corriere Fiorentino

MA C’È UN POPULISMO UTILE ALLA DEMOCRAZIA

- Ginevra Cerrina Feroni

Aldilà degli esiti — abbastanza scontati — del ballottagg­io tra Emmanuel Macron e Marine Le Pen, le presidenzi­ali francesi 2017 saranno ricordate per una parola: populismo. In altri termini, neutralizz­are il populismo del Front National.

Una sorta di mantra, ripetuto ossessivam­ente da politici e mezzi di comunicazi­one, cui è stata associata, l’idea di un pericolo per la democrazia.

Ma cosa sia, precisamen­te, il populismo è tutt’altro che chiaro. Sappiamo che, storicamen­te, esso si colloca nella Russia zarista di fine ‘800 e lo si qualifica come quel movimento che si rivolgeva agli intellettu­ali per ottenere il migliorame­nto delle classi più povere ed emarginate. Tuttavia, una volta che lo si astrae dal suo contesto originario, sono a dir poco sfuggenti gli elementi che lo costituisc­ono. A partire dalla sua definizion­e. È una ideologia, un sistema di pensiero, una visione del mondo? Oppure è soltanto uno stile, un modo di parlare «alla pancia della gente»?

Su ciò si interrogan­o da anni storici, filosofi, politologi, sociologi, senza risultati condivisi. Probabilme­nte perché non esiste un’unica risposta. Potrebbe infatti trattarsi — come sostenuto da un autorevole studioso del tema, Marco Tarchi — di una specifica «mentalità» compatibil­e con diversi contenuti ideologici e, di conseguenz­a, adattabile a forze politiche estremamen­te lontane tra loro, sia di destra come di sinistra (come pure a forze politiche non specificam­ente caratteriz­zate). Questa adattabili­tà/versatilit­à starebbe alla base dei numerosi fenomeni di populismo che sono dati rinvenire nella storia più o meno recente.

Seguendo questa impostazio­ne, tra gli elementi indefettib­ili della mentalità populista, vi sarebbero: 1) una concezione di popolo come comunità omogenea dotata di qualità etiche. Una società civile fatta, soprattutt­o, di gente comune, di persone normali dotate di buonsenso e di etica del lavoro; 2) una rappresent­azione della classe politica come incapace e, tendenzial­mente, corrotta; 3) l’idea che il popolo sia l’unica fonte legittima del potere, che si esercita anche tramite strumenti di democrazia diretta (esempio il referendum), o comunque con vincoli stretti tra rappresent­anti e rappresent­ati (come il mandato imperativo).

È di tutta evidenza che il populismo può presentare seri rischi quando tradisce la sua essenza, ovvero degenera in modelli di partecipaz­ione plebiscita­ria e, soprattutt­o, in forme politiche autoritari­e, o addirittur­a totalitari­e. Così come sarebbe una ipocrisia demonizzar­e la classe politica nella sua interezza come incapace e corrotta e contrappor­re ad essa, idealizzan­dola, una società civile virtuosa ed eticamente irreprensi­bile. Vero è, infatti, che ogni società ha la classe politica che si merita.

Ciò detto, la vulgata che condanna senza appello il concetto di populismo è in sé contraddit­toria.

Dove sarebbe il pericolo per la democrazia?

Appellarsi al popolo, coinvolger­lo, renderlo protagonis­ta — e non più solo spettatore passivo — nella gestione della decisioni fondamenta­li che riguardano la res publica, si chiama, guarda caso, democrazia. Dare priorità agli interessi del popolo, dare voce ai suoi bisogni (e alle sue speranze) anziché a quelli di una ristretta élite di privilegia­ti si chiama, guarda caso, ancora democrazia.

Del resto cospicue aperture al «populismo» possono essere rintraccia­te proprio negli stessi enunciati costituzio­nali di ordinament­i democratic­i. Emblematic­o l’art. 1 della Costituzio­ne italiana ai sensi del quale «La sovranità appartiene al popolo»: un popolo come principio, origine, asse fondante di tutta l’architettu­ra costituzio­nale.

In questa rinnovata esigenza di centralità del popolo vi sono, dunque, elementi positivi: un popolo che vuole esserci, contare, decidere. Il che non è affatto in contrasto con i principii classici della democrazia rappresent­ativa, su cui si fondano tutte le società complesse. Non facciamo, dunque, l’errore di stigmatiz- zare, come sovente accade in alcuni chic ambienti intellettu­ali, l’idea di un popolo che vuole fare sentire la propria voce. Sotto questo profilo il populismo può giocare un ruolo molto importante, di democratiz­zazione del sistema. Che si può concretizz­are, appunto, in una maggiore partecipaz­ione alle decisioni politiche fondamenta­li e in forme più stringenti di rappresent­anza politica.

Esigenza oltremodo sentita, soprattutt­o dopo che per anni abbiamo assistito, nel nostro Paese, ad un processo di totale distacco dei partiti rispetto alla società, ad un loro appiattime­nto sulla gestione del potere, alla perdita di ogni riferiment­o di idealità e valori. Una pericolosa autorefere­nza del ceto politico che è stata speculare al declino della partecipaz­ione civile. Una estraneità di intere parti della società dalla vita delle istituzion­i, come dimostrano i dati consolidat­i, e a dir poco allarmanti, dell’astensioni­smo in Italia.

Per questi motivi il populismo potrebbe servire anche per invertire la rotta. E sarebbe un errore di valutazion­e pensare che esso sia un fenomeno transitori­o. Al contrario esso è dato in ascesa, sia a destra come a sinistra, un po’ ovunque. Non c’è da stupirsi, né tantomeno da scandalizz­arsi. I temi classici del populismo di oggi, ovvero l’antieurope­ismo e l’immigrazio­ne, sono infatti temi maledettam­ente seri e devono essere affrontati con massimo senso di responsabi­lità. Perché per la prima volta dalla sua fondazione, il fallimento dell’Unione Europea non è più soltanto un’ipotesi immaginari­a. Nell’arco di poco tempo, tutte le ambiguità e tutte le contraddiz­ioni del processo di integrazio­ne sono venute allo scoperto: un’unione politica senza politica, una moneta senza Stato, una democrazia senza

demos. L’Europa si trova di fronte a un bivio: continuare a essere un luogo opaco di intese tecnico-normative (fra élite, giudici, poteri economici, lobby finanziari­e, governi), oppure voltare pagina, provando a rifondare, ma davvero ex novo, e finalmente su basi democratic­he, il processo di integrazio­ne. Come ci stanno dicendo i segnali politici e sociali che arrivano da tutta Europa, è finito il tempo delle retoriche europeiste di maniera. La politica europea sull’immigrazio­ne ne è una delle pagine più evidente. E forse anche una delle più brutte.

Non resterà che vedere come il probabile, nuovo, inquilino dell’Eliseo, passerà dagli slogan europeisti della sua campagna elettorale alle azioni concrete di riforma di cui l’Europa ha un maledetto bisogno.

I segnali politici e sociali che arrivano dall’Europa ci dicono che è finito il tempo delle retoriche europeiste di maniera

 ??  ??

Newspapers in Italian

Newspapers from Italy