IL SENTIERO DI BETORI
Quando il 26 ottobre del 2008 Giuseppe Betori arrivò a Firenze per insediarsi sulla cattedra di San Zanobi, una parte della città, e anche del mondo cattolico, pensò di trovarsi di fronte a un arcivescovo «politico», a un grande esperto di faccende curiali, a un uomo di Chiesa poco incline all’aspetto pastorale della sua missione. E forse interessato a un ritorno veloce a Roma e in Vaticano. Questo sembrava suggerire il suo passato più recente, trascorso come segretario della Conferenza episcopale italiana a fianco del suo presidente, il cardinale Camillo Ruini. È andata diversamente e il viaggio del Papa a Barbiana, previsto per il prossimo 20 giugno, è la prova che Betori, anche lui diventato nel frattempo cardinale, ha voluto seguire un cammino molto distante rispetto a quei timori iniziali. Il pieno recupero della figura di don Milani nella contemporaneità della Chiesa non è un episodio isolato, ma il caso più evidente di una rivisitazione tutt’altro che improvvisata: non ne è stata esclusa nessuna delle figure del cattolicesimo fiorentino che dalla metà del secolo scorso in poi hanno lasciato un’impronta indelebile sul Novecento (da una punto di vista ecclesiastico e religioso, ma anche politico, sociale, culturale). Betori capì subito che quello era un patrimonio che la diocesi non solo non doveva perdere, ma che doveva essere riportato alla luce, tirandolo via dalle secche di una memoria a volte parziale, divisa, spesso infarcita di pregiudizi. A favore o contro. Affinché l’impresa riuscisse, si doveva però evitare ogni possibile rischio di opportunismo, e di nuove ipocrisie. E così Betori ha riaperto i cassetti dell’archivio di piazza San Giovanni senza nascondere che in quelle pagine di vita pubblica e privata scritte da don Facibeni, La Pira, don Bensi, padre Balducci e don Milani non c’era solo la fede esplosiva dei cosiddetti «folli di Dio», ma anche il suo rovescio: strappi gravi, incomprensioni, errori. E non da una parte sola.
Ma con un discrimine, tra chi comunque era rimasto dentro la Chiesa (don Lorenzo, come ha ricordato Bergoglio nel videomessaggio di domenica) e chi si era tagliato ogni ponte alle spalle (don Mazzi e la comunità dell’Isolotto). Un’operazione-verità, scandita nel tempo, con gradualità, ma insieme con grande determinazione e che tra poche settimane vedrà concludersi la sua prima parte tra i boschi del Monte Giovi, per lasciare spazio al secondo tempo, forse quello più complicato, quando l’eredità del Novecento si dovrebbe trasformare in un nuovo slancio di opere e pensiero, capace di influenzare in profondità questa Chiesa, a cominciare dai parroci.
A far da collante tra Betori e il Papa è stata in questi anni la comune devozione per il cardinale Elia Dalla Costa, l’arcivescovo di Firenze che ordinò sacerdote Lorenzo Milani. Un precursore della Chiesa «in uscita», della Chiesa che «sa sporcarsi le mani» in mezzo alla gente, come adesso chiede Francesco. E che non a caso nel conclave del 1939 rappresentò l’alternativa al cardinale Pacelli, poi eletto come Pio XII. Il cammino di Betori, insomma, si è via via arricchito di un aspetto pastorale sempre più evidente, che non poteva modificarne lo stile, cordiale però poco popolaresco, ma che ora consente ai vaticanisti di inserirlo tra i possibili successori del cardinale Angelo Bagnasco alla guida dei vescovi italiani. Una partita che si giocherà a fine maggio. Tra una rosa di candidati molto accreditati. Comunque vada, Betori qui a Firenze ha già lasciato una traccia. Ed è una traccia profonda.