Jeanne story
La figlia dell’artista livornese visse la sua giovinezza a Firenze adottata dalla zia Margherita Frequentò il ginnasio e il liceo Michelangiolo, che conserva ancora le «tracce» dei suoi anni scolastici
Quando la figlia di Modigliani studiava al «Miche»
In mostra una trentina di dipinti di vari musei come il Musée de l’Orangerie e il Picasso di Parigi, il Koninklijk Museum voor Schone Kunsten di Anversa, il Fitzwilliam di Cambridge
Il suo nome era Jeanne ma a Firenze la chiamavano Giovanna. O più affettuosamente «Nannoli», con il diminutivo. Giovanna Modigliani, la figlia di Modì, visse nel capoluogo toscano parte della la sua infanzia e della giovinezza.
Nel 1920 quando il padre Amedeo morì, nell’ospedale della Charité di Parigi, aveva appena 14 mesi. Il giorno dopo, per la disperazione per la scomparsa del marito, la madre Jeanne Hébuterne, incinta al nono mese, si tolse la vita gettandosi da una finestra al quinto piano. I funerali del pittore livornese furono pagati dagli amici più stretti che fecero una colletta raccogliendo i 1340 franchi necessari per le esequie tra gli artisti e le modelle nei caffè parigini frequentati da Amedeo. Al cimitero di Père-Lachaise «a salutare Modì, c’era tutta Parigi» scriverà poi Giovanna nel suo libro Modigliani, mio padre: gli amici, gli artisti, la popolazione di Montmartre e Montparnasse, ma «anche, sull’attenti, i poliziotti e i mercanti, furtivi, che compravano».
La piccola Giovanna, rimasta orfana, fu portata in Italia, dal fratello del babbo, Giuseppe Modigliani, leader socialista, e trascorse qualche tempo con la nonna Eugenie a Livorno. Poi fu adottata dalla zia paterna, Margherita Modigliani, insegnante di lettere di 36 anni, che la crebbe come una figlia. Zia Margherita insegnava da qualche anno a Firenze, e così portò «Nannoli» a vivere con sé, nella sua casa alle Cure, in via Borghini al numero 23. In questo appartamento dalla grande cucina con il tavolo di marmo nero dove al mattino cercava ancora assonnata di buttar giù il caffellatte e ripassare le lezioni, Giovanna divenne grande, in mezzo ai ricordi del «povero babbo» come
Era molto brava nelle materie letterarie, meno in matematica e fisica «Per fortuna a scuola nessuno sapeva chi fosse il mio povero babbo», scrisse nel suo diario
veniva ricordato in famiglia: uno strano cuscinetto lustrascarpe fatto con i pezzi cuciti insieme di una sua vecchia giacca di velluto marrone, la maschera mortuaria, posata su un cuscino di velluto su un tavolino di falso Rinascimento italiano, cinque disegni dell’artista appesi in soggiorno e illuminati da applique in ferro battuto, tra cui tre nudi, il ritratto di un uomo seduto e un profilo di Jeanne Hébuterne. Giovanna frequentò il ginnasio e il liceo classico Michelangiolo. A sinistra il diploma di ammissione al Liceo Classico e sopra una pagella della giovane Jeanne che qui chiamavano Giovanna e anche Nannoli Nessuna insufficienza, il suo forte erano le materie letterarie «Per fortuna a scuola — scrive — nessuno o quasi, sapeva chi fosse “il mio povero babbo”». Nell’archivio del Michelangiolo sono conservate ancora le sue pagelle. Venne ammessa all’esame di ammissione al liceo con tutti sette e otto. Nel triennio le materie in cui eccelleva erano quelle letterarie: una media del nove in italiano, otto in latino, storia civile, filosofia, storia dell’arte. Arrivava invece alla sufficienza o poco più in scienze matematica e fisica.
Non sorprende quindi se dopo le scuole superiori si iscrisse, alla facoltà di Lettere, all’Ateneo fiorentino. Il primo anno sostenne cinque esami e si confermò un’ottima studentessa: 30 e lode in Storia moderna, 30 in Psicologia, 30 Storia medioevale e archeologia, «appena» 28 in Storia delle religioni (come riporta Nicola Coccia nel libro L’arse argille consolerai). Si pagava gli studi grazie a una borsa di studio del valore di 550 lire. Era la fine degli anni Trenta e l’Italia del fascismo promulgava le leggi razziali: Giovanna, ebrea, per sfuggire alle persecuzioni lasciò la casa di zia Margherita e si trasferì, per poco tempo, dalla famiglia Ichino in piazza Pitti. Ma nel 1939 decise di rifugiarsi a Parigi, dove lavorò come maestra in un collegio femminile a Chartres e quando il paese venne occupato dai nazisti entrò nel Maquis, la resistenza francese.
In Francia sposò Mario Levi dal quale ebbe due figlie. Nel 1952 con una borsa di studio del Centro nazionale della ricerca scientifica iniziò delle ricerche in Francia e in Olanda su Van Gogh, un altro pittore dal talento naturale e dall’indole tormentata, come Modigliani.
Anche se aveva conosciuto ben poco il babbo, trascorse tutta la sua esistenza fino alla morte, avvenuta nel 1984 (per un’emorragia cerebrale dovuta a una caduta da una scala) per ottenere un riconoscimento ufficiale al valore dell’opera paterna: nel 1981, a Parigi, riuscì a organizzare la mostra più completa fino ad allora realizzata di Modigliani, oltre duecentocinquanta opere fra dipinti, sculture, gouaches, disegni. Con la stessa tenacia e caparbietà lavorò per ricostruire, meticolosamente, la vita di Modigliani al di là dei miti e delle leggende. «Appena sono stata in grado di leggere ho avuto il diritto di ripercorrere tutti i libri e gli articoli su Modigliani e Montparnasse che affluivano a casa». Li divorava accovacciata sul vecchio tappeto turco dell’appartamento alle Cure.