Enrico Nistri MA CHE ASPREZZA IN QUEGLI SFOGHI, COME NELL’ANTICO TESTAMENTO
Da quando Dino Campana alla vigilia della grande guerra dedicò i Canti Orfici «a Guglielmo II, Imperatore dei Germani», non c’è stata epigrafe più infelice di quella con cui Walter Siti ha dedicato a don Lorenzo Milani il suo Bruciare tutto. Il priore di Barbiana può essere odiato o amato, ma il giudizio su di lui non dev’essere influenzato da una callida operazione editoriale. Don Milani ci ha lasciato un immenso epistolario: la sua corrispondenza conosce vibrazioni sublimi e vernacolari cadute di stile. In certi casi si tratta di sfoghi sfuggiti in momenti in cui il sacerdote poteva sentirsi in libera uscita dai doveri ecclesiastici, anche se per la verità un sacerdote è sempre in servizio. Ma il suo magistero e la sua statura umana devono essere giudicati dalle sue opere e dalle testimonianze di chi gli fu vicino. Fonte primaria per comprendere don Lorenzo è don Luigi Bensi, l’artefice della sua conversione. In un’intervista rilasciata nel 1971 alla Domenica del Corriere lo definì «un santo travestito da diavolo», un ebreo convertito «con ancora un piede nell’Antico Testamento», un «orgoglioso di tre cotte, un bugiardo, un superbo». Ricordò come, una volta che andò a trovarlo, temette che i «suoi» ragazzi lo picchiassero, siccome aveva osato criticarlo. Chiunque si recasse a Barbiana, del resto, era sotto processo. Ne fece le spese lo stesso La Pira, che il «sor priore» presentò come «un santo arteriosclerotico», per tacere di don Stefani che, arrivato dopo la polemica sui cappellani militari carico di regali in vista di una riconciliazione, si vide trattato a pesci in faccia. C’era, nel rapporto di don Lorenzo con i suoi discepoli, qualcosa di esclusivista, che ha urtato esponenti della sinistra laica come Carlo Falconi e Sebastiano Vassalli. Nella sua ostilità nei confronti della scuola pubblica che bocciava agli esami i suoi discepoli perché non sapevano «di chi è figlia Giunone» si può scorgere un riflesso del suo sentimento di superiorità intellettuale nei confronti delle «vestali della classe media», insieme a un’eco dell’antica polemica del cattolicesimo intransigente nei confronti della borghesia liberale che aveva fatto l’Italia sostituendo la scuola privata con l’apparato laico della pubblica istruzione. Ma l’avversione allo studio del latino, il pauperismo con punte classiste che scandalizzò persino il futuro «Papa buono» Angelo Roncalli, la sua confessione di aver amato più i poveri della Chiesa ne fanno un personaggio che non è possibile recingere nel bel presepe buonista di Barbiana. Un presepe nel quale don Milani sarebbe stato il primo a trovarsi a disagio.