PIÙ MASSONI CHE MASSONERIA
Ma davvero la massoneria condiziona ancora la vita pubblica, in Italia e soprattutto in Toscana? È la domanda che molti si fanno alla fine di una settimana in cui i retroscena contenuti nel libro di Ferruccio de Bortoli — «Poteri forti (o quasi)» — hanno innescato il caso Boschi-Etruria-Unicredit per il presunto «interessamento» dell’allora ministra delle riforme all’acquisto (poi non avvenuto) della disastrata banca aretina da parte della grande banca milanese.
La risposta alla domanda è tutt’altro che semplice. Sappiamo quanto peso la massoneria toscana abbia avuto nel Risorgimento e come l’associazione segreta sia rimasta viva nelle stagioni successive, superando anche lo scoglio del regime fascista che la mise al bando. Ma una volta conquistate le libertà democratiche, con la fine della seconda guerra mondiale, quegli ideali di progresso civile perdevano la loro motivazione più potente per ricomporsi in una comunità ancora decisa a dare un contributo alla crescita (morale e non solo) del nostro Paese, ma non più in pericolo e dunque più esposta alle contaminazioni degli interessi, sospinti da un’economia in espansione. Fatalmente il confine tra idealismo e affarismo non poteva che farsi più incerto, anche a prescindere dalla deriva della P2, che grazie al suo fondatore Licio Gelli, aretino, qui in Toscana fu più forte che in altre regioni, assumendo i connotati di una vera e propria consorteria politicofinanziaria.
La massoneria difende a spada tratta la legittimità della sua attività e, al tempo stesso, quella riservatezza che è ormai subentrata alla segretezza assoluta. Ma è proprio il mantenimento della riservatezza che contraddistingue la massoneria italiana ad alimentare i sospetti sull’uso distorto di un potere nascosto.
Le polemiche sul ruolo della massoneria sono inevitabili. Contano i pregiudizi, certo. Ma ancora di più conta la cronaca. Nel caso di Banca Etruria, ad esempio, massone dichiarato era il suo presidente storico, Elio Faralli. Ma massone (P3) era anche quel Flavio Carboni che, secondo le ricostruzioni giornalistiche, il padre della ministra avrebbe incontrato come vicepresidente della banca aretina per chiedergli consiglio su chi nominare alla direzione generale.
De Bortoli nel suo libro riporta anche il giudizio drastico dell’ex presidente del Monte dei Paschi sulle sventure della banca senese: «La colpa è tutta della massoneria».
Legami sotterranei, che secondo Alessandro Profumo sarebbero emersi soprattutto quando c’era da assumere qualcuno. È davvero così che va da queste parti? È difficile credere a riunioni massoniche in cui, tra squadre e compassi, si cerchi di decidere il destino di una banca o di un’azienda, oppure una partita di nomine o il posto di lavoro di Tizio o Caio. È più facile, e più realistico, pensare alle influenze che possono esercitare i contatti e le frequentazioni dei singoli nelle diverse logge. Come dire che, probabilmente, i massoni — meglio, alcuni di loro — contano assai più della massoneria. Quanto tutto questo premi il merito e promuova le eccellenze, secondo la continuità con gli obiettivi fondanti dell’associazione, o si risolva invece in puri giochi di potenza e condizionamenti personali solo i diretti protagonisti potrebbero dirlo con certezza. Ma scandali, veri o no, e inchieste, fondate o meno, gettano ombre e alimentano il mito negativo. Trovando una formidabile sponda in quell’esercizio del potere un po’ strabordante e molto compiaciuto di se stesso che in provincia, cioè in contesti ristretti, si fa più evidente. Innescando, anche per questa via, un moto di crescente insofferenza, che poi diventa vento politico.
Nasce anche da qui la necessità di investire sulla trasparenza, a tutti i livelli, per chi vuole disegnare un’Italia diversa. Dovrebbe valere anche e soprattutto per Renzi, che sconta più di ogni altro le turbolenze di questi giorni, con il rischio che l’effetto benefico delle primarie venga vanificato.
Invece di continuare a rosicare per la sconfitta del 4 dicembre, come ha dichiarato lui stesso nell’intervista di ieri al direttore del Foglio Claudio Cerasa e a polemizzare con l’ex direttore del Corriere, il segretario del Pd dovrebbe segnare piuttosto un punto di vera svolta, mettere a punto un progetto di governo chiaro e avviare la semina di una nuova classe dirigente. Lontana da opportunismi e opacità. Un’impresa, è vero. Ma che altro dovrebbe fare un buon governo se non imprese al servizio dei governati?