Le metamorfosi di Paulo Sousa (con le frecciate)
L’ultimo selfie Paulo Sousa dovrà probabilmente scattarselo da solo. Non ci saranno tifosi a fare a gara per contenderselo, né sorrisi e acclamazioni. Se ne va da uomo solo, il portoghese, e non ci starebbe male un po’ di fado in sottofondo a sottolineare la malinconia di una storia che pure era iniziata citando Pessoa e Tabucchi e che prometteva faville, almeno a livello di empatia. Ma l’apparenza inganna e il volto sorridente, quell’entrare in punta di piedi («voglio onorare il passato di questa società con la mia passione», disse il primo giorno in viola) sono diventati presto un ricordo lontano, perfino stridente.
Se ne va dunque, Paulo Sousa. Con uno storico primo posto durato tre mesi appuntato sul petto, ma senza nemmeno la soddisfazione di aver centrato per il secondo anno consecutivo la qualificazione in Europa, e lasciando la Fiorentina in acque molto più torbide di come l’aveva trovata. Con il Pescara siederà sulla panchina viola per la partita numero 95, dopo 707 giorni dalla sua firma, con una media di 1,63 punti a partita e la peggior difesa della gestione Della Valle. E resterà probabilmente seduto per tutta la partita contando mentalmente i minuti prima del fischio finale, senza nemmeno alzarsi per dirigere la squadra, come ha fatto improvvisamente nelle ultime partite, mostrando disinteresse e una certa aria di sfida, verso la società e l’ambiente. Accanto a lui non mancherà di certo il fidato consigliere, Sem Moioli il tuttofare, l’uomo che fin dall’inizio è divenuto il tramite fra la Fiorentina e l’allenatore, fra Firenze e il portoghese. Tanto che i contatti tra Sousa e il resto del mondo viola sono divenuti, giorno dopo giorno, sempre più formali e diffidenti. Come al centro sportivo, dove in tanti sono stati costretti non senza rimpianti a fare le valigie (da Guerini a Ripa fino allo storico massaggiatore Fagorzi e a capitan Pasqual) e dove l’aria è diventata via via sempre più pesante con divieti per chiunque perfino di affacciarsi sui campi di allenamento, per non parlare dei doppi alberghi in trasferta, così da dividere la squadra e il suo staff da tutto il resto della comitiva. Ma anche con la città e i media (con cui ha ingaggiato una battaglia personale, molto più utile di quanto si pensi per distogliere l’attenzione dai problemi tecnici) le cose sono andate peggiorando sempre di più. Niente più abbracci prima della partita con i tifosi del parterre né voglia di spiegare e spiegarsi davanti ai microfoni. Sousa ha alzato un muro, dietro a cui sparare frecce, avvelenate e mai casuali.
Già, perché la sala stampa un po’ per il suo modo di parlare talmente tecnico da apparire un esercizio buono per un film di Amici Miei, un po’ per il suo passato nel mondo mediatico, ha finito per diventare il vero palcoscenico del portoghese. E se dopo un mese di lavoro in ritiro i primi scricchiolii non avevano preoccupato granché («dobbiamo fare le omelette con le uova che abbiamo», commentò così il primo mercato viola) prendendoli più che altro per semplici battute, è a gennaio dello scorso anno dopo non aver ricevuto i rinforzi sperati che il fiume (di parole) ha iniziato a straripare senza più tornare indietro. «Non smetto di sognare ma sono più realista rispetto ai miei primi mesi alla Fiorentina. L’anno scorso spingevo per il sogno, adesso per la realtà», così a ottobre scorso Sousa ha scelto di chiudere anzitempo il suo rapporto con la Fiorentina nel tentativo (in realtà non riuscito) di smarcarsi dalla società, allontanando dal proprio operato le responsabilità delle difficoltà sul campo. Passano (faticosamente) i mesi, ma il tono non cambia anzi. Tanto che è il dopo gara di Sampdorio-Fiorentina a Marassi a sancire definitivamente il punto di non ritorno tra lui e il club: «Alleno questa squadra, ma non è la mia». Frecciate che diventano macigni, benzina sul fuoco sul rapporto (già difficile) dei Della Valle con una parte della tifoseria.
Già, perché dopo due anni di «calcio basculante» e di «prese decision» il bicchiere è decisamente mezzo vuoto e non solo per quanto riguarda la classifica e quanto visto in campo. Ad aver subito un colpo durissimo è proprio il rapporto fra la società e la tifoseria più incline alla contestazione e mal disposta verso la proprietà che nel portoghese ha trovato una sponda perfetta per puntare l’indice contro la dirigenza viola. Due anni, dunque. Iniziati con proclami e propositi di unità e finiti con uno scenario post-bellico, almeno nelle stanze della Fiorentina. Adesso, al suo successore, spetterà il compito di rimettere insieme i cocci nella speranza di poter contare ancora sui due talenti emersi anche grazie al lavoro del portoghese: Bernardeschi e Chiesa. La dimostrazione che tra il materiale a disposizione, Sousa ha avuto anche una buona dose di talento su cui lavorare. E che forse, pensando più al campo e meno alle proprie ambizioni, la storia di Sousa a Firenze sarebbe anche potuta essere diversa. L’ennesimo rimpianto di una stagione da dimenticare.
A Firenze non sogno più, lo scorso anno spingevo per vincere. Adesso sono realista 28 ottobre 2017