Corriere Fiorentino

LEGGE ELETTORALE, LA SCENEGGIAT­A E LE RESE DEI CONTI

- di Daniele Marchetti*

Caro direttore, ad una settimana dalla sceneggiat­a sulla legge elettorale la realtà sembra prendere forma nella sua dimensione più nitida ed ogni tassello sembra collocarsi nel posto giusto. Partiamo, quindi, dall’inizio. Che necessità aveva Beppe Grillo, da menestrell­o anti-sistema, di entrare in un improbabil­e accordo istituzion­ale sulla legge elettorale? E, per contro, che bisogno aveva Matteo Renzi, incassato l’ok di Silvio Berlusconi e Matteo Salvini, di complicars­i la vita coinvolgen­do nella partita i grillini? Apparentem­ente nessuno. Per entrambi. Ma niente in politica accade per caso. Renzi non aveva bisogno di voti: nonostante il no degli orlandiani, degli alfaniani e dei dalemiani, i numeri alla Camera erano certi come al Senato. E se ne avesse avuto bisogno, Renzi poteva comunque e senza problemi (Berlusconi avrebbe accettato, pur di restare in partita) ricorrere all’arma dissuasiva della riduzione dello sbarrament­o per riconquist­are, se non tutti, una buonissima parte dei compagni di maggioranz­a. A conti fatti, quindi, Renzi non aveva alcun bisogno di Grillo se non per «estromette­re» definitiva­mente dai giochi la minoranza interna e rendere ininfluent­e il loro voto. E che questa fosse la vera motivazion­e dello strano «ingaggio», lo ha confermato, in quelle frenetiche ore, la cruenta presa di posizione del Presidente emerito Napolitano il quale era stato sia lo sponsor numero 1 della candidatur­a di Orlando alle primarie Pd, che un fautore di ampie convergenz­e sulla legge delle leggi. Proprio colui che da sempre aveva raccomanda­to e «preteso» larghissim­e intese sulle regole comuni si è visto costretto — per amor di corrente — a far saltare il tavolo. Scoperto il gioco, a Renzi è rimasta solo un’onorevole via di uscita: quella dell’incidente d’aula (e la scusa dell’emendament­o sul Trentino è stata più che sufficient­e) per poter battere velocement­e in ritirata e non perdere, assieme alla partita, anche la faccia. Sul versante 5 Stelle il discorso appare pressoché analogo. L’idea di entrare a far parte di una trattativa politica, rinnegando di fatto il Dna e le radici del Movimento, aveva certamente l’ambizione di recuperare il tratto di affidabili­tà istituzion­ale indispensa­bile per una forza che si propone come guida del Paese, ma soprattutt­o, mirava ad una resa dei conti interna con una facile e definitiva vittoria dei «governativ­i» Di Battista e Di Maio. Un calcolo astuto che l’uscita di Napolitano ha mandato, inevitabil­mente, a carte quarantott­o costringen­do l’establishm­ent grillino ad una — ai più — incomprens­ibile inversione ad U assieme alla minaccia di un ritorno al «Sacro web» per una nuova consultazi­one (che peraltro avrebbe dovuto smentire se stesso ed il plebiscito che aveva tributato all’accordo appena qualche ora prima). Una figuraccia scongiurat­a dal voto semi segreto dell’aula e dal ritorno della legge in commission­e. Dopo il 25 giugno, giorno dei ballottagg­i, la discussion­e sulla legge elettorale riprenderà il suo corso ma niente potrà essere come prima. L’accordo tra Pd, FI, Lega e l’eventuale coinvolgim­ento di qualche cespuglio, è probabile che tenga. Certamente per il Pd e per Renzi la legge elettorale diventa la pietra d’angolo, la partita da non fallire e da portare comunque in porto alle condizioni che — lo si è capito — stanno benissimo a tutti: proporzion­ale (più o meno puro) e liste bloccate. La resa dei conti nel Pd, come nel M5S, è solo rinviata. La composizio­ne delle liste sarà il vero banco di prova. E Orlando è sempre più vicino a Pisapia.

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