LEGGE ELETTORALE, LA SCENEGGIATA E LE RESE DEI CONTI
Caro direttore, ad una settimana dalla sceneggiata sulla legge elettorale la realtà sembra prendere forma nella sua dimensione più nitida ed ogni tassello sembra collocarsi nel posto giusto. Partiamo, quindi, dall’inizio. Che necessità aveva Beppe Grillo, da menestrello anti-sistema, di entrare in un improbabile accordo istituzionale sulla legge elettorale? E, per contro, che bisogno aveva Matteo Renzi, incassato l’ok di Silvio Berlusconi e Matteo Salvini, di complicarsi la vita coinvolgendo nella partita i grillini? Apparentemente nessuno. Per entrambi. Ma niente in politica accade per caso. Renzi non aveva bisogno di voti: nonostante il no degli orlandiani, degli alfaniani e dei dalemiani, i numeri alla Camera erano certi come al Senato. E se ne avesse avuto bisogno, Renzi poteva comunque e senza problemi (Berlusconi avrebbe accettato, pur di restare in partita) ricorrere all’arma dissuasiva della riduzione dello sbarramento per riconquistare, se non tutti, una buonissima parte dei compagni di maggioranza. A conti fatti, quindi, Renzi non aveva alcun bisogno di Grillo se non per «estromettere» definitivamente dai giochi la minoranza interna e rendere ininfluente il loro voto. E che questa fosse la vera motivazione dello strano «ingaggio», lo ha confermato, in quelle frenetiche ore, la cruenta presa di posizione del Presidente emerito Napolitano il quale era stato sia lo sponsor numero 1 della candidatura di Orlando alle primarie Pd, che un fautore di ampie convergenze sulla legge delle leggi. Proprio colui che da sempre aveva raccomandato e «preteso» larghissime intese sulle regole comuni si è visto costretto — per amor di corrente — a far saltare il tavolo. Scoperto il gioco, a Renzi è rimasta solo un’onorevole via di uscita: quella dell’incidente d’aula (e la scusa dell’emendamento sul Trentino è stata più che sufficiente) per poter battere velocemente in ritirata e non perdere, assieme alla partita, anche la faccia. Sul versante 5 Stelle il discorso appare pressoché analogo. L’idea di entrare a far parte di una trattativa politica, rinnegando di fatto il Dna e le radici del Movimento, aveva certamente l’ambizione di recuperare il tratto di affidabilità istituzionale indispensabile per una forza che si propone come guida del Paese, ma soprattutto, mirava ad una resa dei conti interna con una facile e definitiva vittoria dei «governativi» Di Battista e Di Maio. Un calcolo astuto che l’uscita di Napolitano ha mandato, inevitabilmente, a carte quarantotto costringendo l’establishment grillino ad una — ai più — incomprensibile inversione ad U assieme alla minaccia di un ritorno al «Sacro web» per una nuova consultazione (che peraltro avrebbe dovuto smentire se stesso ed il plebiscito che aveva tributato all’accordo appena qualche ora prima). Una figuraccia scongiurata dal voto semi segreto dell’aula e dal ritorno della legge in commissione. Dopo il 25 giugno, giorno dei ballottaggi, la discussione sulla legge elettorale riprenderà il suo corso ma niente potrà essere come prima. L’accordo tra Pd, FI, Lega e l’eventuale coinvolgimento di qualche cespuglio, è probabile che tenga. Certamente per il Pd e per Renzi la legge elettorale diventa la pietra d’angolo, la partita da non fallire e da portare comunque in porto alle condizioni che — lo si è capito — stanno benissimo a tutti: proporzionale (più o meno puro) e liste bloccate. La resa dei conti nel Pd, come nel M5S, è solo rinviata. La composizione delle liste sarà il vero banco di prova. E Orlando è sempre più vicino a Pisapia.