Quanti Pantheon per don Milani
Lui e la politica: Veltroni portò al Lingotto il suo «I care», però non piacque solo alla sinistra Le lodi del liberale Malagodi, l’apprezzamento di Einaudi per «Esperienze pastorali». Ma ora? La presa non si vede più
Quando Walter Veltroni, segretario dei Ds, salì per la prima volta a Barbiana, nel novembre del 1999, una giornata di neve, rimase colpito soprattutto dalla scritta «I care», appesa alla parete della stanzuccia della canonica, dove don Lorenzo Milani faceva scuola ai suoi piccoli montanari. Significa: mi interessa, mi sta a cuore. Due mesi dopo, quella scritta Veltroni se la portò con sé a Torino e l’assunse come titolo del congresso diessino del Lingotto. Per la prima volta don Milani divenne il riferimento ideale di un assise politica. Operazione che per molti assunse i contorni di un sogno appassionante, per altri i caratteri di un’operazione di marketing politico. Destino inevitabile di ogni pantheon politico. Dove il confine tra la passione e la strumentalizzazione è alquanto sottile.
Riabilitato dalla sua Chiesa con il Papa che addirittura il 20 giugno va a pregare sulla sua tomba, da tempo don Milani abita molti pantheon politici. Di sinistra, ma non solo, come vedremo. La ragione l’ha sottolineata il giornalista e scrittore Giorgio Pecorini, amico del priore: in don Milani sul tronco di una fede assoluta in Dio si dipartono i rami di una forte incidenza sociale e culturale. Basti pensare che le sue tre opere principali – Esperienze pastorali, L’obbedienza non è più una virtù e Lettera a una professoressa – affrontano temi cruciali della seconda metà del Novecento: la riforma religiosa, il no alla guerra, il riconoscimento dell’obiezione di coscienza, gli effetti sociali del passaggio dall’Italia rurale a quella industriale, il classismo della scuola e la dispersione scolastica. E l’attenzione del priore alla società e alla politica («...il problema degli altri è uguale al mio. Sortirne tutti insieme è la politica. Sortirne da soli è l’avarizia», si legge in Lettera a una professoressa) ne ha fatto un punto di riferimento per molti politici. Così che Barbiana, dimenticata persino nelle cartine geografiche del Mugello, è divenuta uno dei luoghi ideali della politica. Tra laboratorio, eresia e provocazione.
Prete ma anche un pensatore sociale (c’è chi lo ha accostato a Pier Paolo Pasolini), don Milani è stato applaudito (così come criticato) non solo a sinistra, ma sorprendentemente anche da esponenti della cultura politica di centrodestra. Ad esempio Luigi Einaudi, economista liberale, ex presidente della Repubblica, quando nel 1958 don Milani scrisse Esperienze pastorali gli inviò una lettera di apprezzamento per l’originalità della metodologia sociologica utilizzata: «Chi ha mai, fuor di lei, elevato il ‘letto’, in congiunzione col numero delle stanze e delle persone, ad indice di affollamento, a causa dell’uso successivo del medesimo letto da diverse persone? Solo chi conosce uomini e donne, ne sa la vita e i veri problemi, sa interrogare e vedere».
Un altro liberale estimatore di don Milani, fin dall’uscita di Esperienze pastorali, fu Giovanni Malagodi, segretario del Pli. Quando nel 1965 uscì la Lettera ai cappellani militari e successivamente quella ai giudici, il priore di Barbiana venne a sapere, lui dipinto dai giornali di destra come «il prete rosso», che nel corso di una cena fiorentina Malagodi aveva espresso, così riferisce il priore, «lodi sperticate» nei suoi confronti. Tanto è vero che il segretario del Pli intervenne presso la stampa liberale perché le due lettere di don Milani avessero un’attenzione non preconcetta, come avvenuto fino ad allora. Sempre nel 1965 un altro politico, ma di sponda opposta, il comunista Pietro Ingrao decise di conoscere da vicino don Milani e così salì a Barbiana. Al suo arrivo non ci furono convenevoli. L’incontro si tramutò subito in un «processo». Il priore e i ragazzi lo incalzarono di domande. «Il tema non era marginale: riguardava il rapporto del partito con gli operai e i contadini», ha raccontato Ingrao.
Morto don Milani, Barbiana non è stato più un luogo di «processi», ma di ossequi politici. Soprattutto nella seconda Repubblica andare a Barbiana ha fatto tendenza, moda politica. Da Matteo Renzi (da presidente della Provincia) a Dario Franceschini, da Antonio Di Pietro al presidente della Camera Fausto Bertinotti, da Lapo Pistelli a Giuseppe Fioroni è lunghissimo l’elenco di firme e dediche apposte nel libro dei visitatori del piccolo cimitero dove riposta don Milani. Infine quasi tutti i ministri della Pubblica Istruzione, dall’ex comunista Luigi Berlinguer a Letizia Moratti (Forza Italia), hanno incipriato le loro riforme di richiami milaniani.
Anche nel centrodestra non sono mancate le citazioni, i riferimenti, gli appressamenti. Nel 1995 la leghista Irene Pivetti, a quel tempo presidente della Camera, dopo aver ricordato in un libro di aver letto con entusiasmo Lettera a una professoressa, sostenne che don Milani era un prete e che quindi solo i cristiani avevano diritto di parlarne. Ne seguì un vespaio di polemiche. Che vent’anni dopo hanno preso di mira anche l’attuale leader del Carroccio Matteo Salvini che, due anni fa, ha citato il priore di Barbiana per invitare alla disobbedienza civile: «Mi piacerebbe che nelle scuole si studiasse don Milani: a leggi sbagliate si deve disobbedire fino a che non vengono cambiate. E in Italia sono tante».
Evocato a proposito o a sproposito, tirato per la tonaca o sinceramente apprezzato, resta il fatto che don Milani resta in gran parte disatteso dalla politica. A cinquant’anni dalla sua morte se è abbastanza facile e amaro constatare che la sua lezione ha avuto scarsa presa sulla politica, va anche aggiunto che essa è ritenuta ancora attuale. Come dire che Barbiana è sì lontana ma anche molto vicina alla Roma della politica e dei suoi problemi.
1. Continua
In quel cimitero piccolo piccolo Renzi, Di Pietro, Franceschini, Berlinguer: tanti omaggi importanti alla sua tomba durante la Seconda Repubblica, e anche prima...