Il canzoniere del critico-poeta
La passione per i versi di Stefano Carrai, docente di letteratura italiana all’Università di Siena Il ricordo del padre, il fascino di Firenze, il fantasma di Saba: un viaggio senza lacrime e illusioni
A furia di spiegare dalla cattedra versi e scuole della letteratura italiana, spaziando dalle origini ai giorni nostri, la sindrome dell’autorialità finisce per prendere anche chi fino ad oggi ha lavorato nell’ombra assolvendo i doveri di un mestiere speciale, non neutralmente scientifico né seccamente filologico.
Stefano Carrai, fiorentino, classe 1955, insegna Letteratura italiana all’Università di Siena e annovera una bibliografia imponente. Tra i suoi più recenti volumi saggistici basterà citare Dante e l’antico (Edizioni del Galluzzo, Firenze 2012) e Saba (Salerno, Roma 2017). Ma già aveva dato alle stampe un primo libro di sue poesie, Il tempo che non muore (Interlinea, Novara 2012), col quale aveva vinto il premio Pisa nel 2013 e il Contini Bonacossi nel 2014. La tentazione dei due tavoli è acquisita. Il vizio prosegue con uno stringato canzoniere: La traversata del Gobi (pp. 121, € 12, Nino Aragno, Torino 2017). Provoco l’autorevole docente chiedendogli se non avverte qualche disagio nel trascorrere dall’analisi della lingua di un’opera del basso Medioevo alla distillazione di componimenti segnati da una dimessa impronta autobiografica. «Per me — risponde serafico — il critico e il poeta siedono ai due lati di un medesimo tavolo, nel senso che li ho frequentati quasi sempre entrambi. Il bisogno di comprendere i grandi non contrasta con la riflessione sulla propria esistenza nel quadro della storia collettiva. Sono due livelli diversi, ma pur sempre di testimonianza, sempre di un transitare si tratta». Quando cominciò da ragazzo a scriver poesie Stefano aveva come principale modello Eugenio Montale. Oggi è più preso dalla spinta che Sopra i palazzi di Firenze riflessi sull’Arno; sotto Stefano Carrai, e in basso Eugenio Montale e Umberto Saba
L’ultima raccolta di poesie di Stefano Carrai si intitola ed è edita da Nino Aragno il lettore è come fosse invitato a esplorare il sottosuolo dell’animo. Lungo questa linea di scavo archeologico un posto privilegiato spetta alla memoria, a quella domestica, dove campeggia la figura del padre Giovanni che nel ’44 subì a seguito di un bombardamento l’amputazione d’una gamba, e a quella pubblica, che reca incisa per squarci una Firenze filtrata dall’ottica di amici o conoscenti: «Brunetta mi racconta/di quel giorno del Trentotto che andò/con sua madre a vedere/Hitler e Mussolini/ sfilare nel tripudio/delle croci uncinate»: l’eco della Primavera hitleriana di Eugenio Montale è prosaicizzato in una disinvolta chiacchierata confidenziale. E la voce femminile riferisce orgogliosa «di Landolfi che voleva sposarla», s’intrattiene su un «Gadda gentile», su «Montale scostante», su Parronchi e su «Rosai/che le voleva bene…». Un aggettivo, non di più. E un andamento epicedico stretto in versicoli che rifiutano espansioni immaginose. Firenze sfoggia il fascino di una città resistenziale, combattiva, severa. Percorsa da figure che ne esaltano gli scatti di ribellione e il culto della parola, politica e filologia. Sebastiano Timpanaro impreca contro «un capitalismo/sempre più disumano». Rosanna Bettarini ha abbandonato la scena, ma sopravvive il ricordo «di quelle sue eleganti spiegazioni /tutte tremito/ alla lavagna…». I luoghi canonici di un’urbanistica sentimentale rinviano al passato prossimo: «Davanti a Paszkowski la gente fa/capannello intorno a dei musicisti/di strada».
Il fantasma di Umberto Saba — che approdò in riva d’Arno nel suo angosciato cammino d’esilio «nei dì della sventura» — appare in via dei Serragli «con il suo basco in testa/e con pipa e bastone», icona di una stagione indimenticabile. Una certa mitizzante nostalgia abbonda. Stefano l’ammette: «Certo che ho nostalgia della Firenze in cui c’erano quattro o cinque case editrici di rilievo nazionale e la Fiorentina poteva persino vincere lo scudetto». E condivide il rimpianto del tempo che fu, ma non come mesta rivendicazione localistica. La sua è una perlustrazione mossa da una pietas tutta laica, senza lacrime o illusioni. Far poesia diviene faticoso reperimento di ciò che è stato ed è destinato a non trovare ospitalità nel clamore delle storie tramandate.