I vent’anni di Ovosodo
Vent’anni fa usciva il film di Virzì tutto ambientato nella sua Livorno, pronta ora a festeggiarlo Tra palazzoni periferici e il mare un’opera quasi perfetta che rievoca in certi momenti Monicelli e Visconti
Un po’ Monicelli, un po’ Visconti: Livorno prepara la festa per il film cult di Paolo Virzì
Livorno è una città bella e aspra, scaldata dal mare, piena di una scontrosa grazia, come un ragazzo con mani troppo grandi per regalare un fiore, come avrebbe potuto scrivere un poeta. Paolo Virzì ci nacque nel 1964: la mamma era una livornese puro sangue e a lei il regista ha dedicato un film pieno di nostalgia, dolce e malinconico, intitolato come una struggente canzone, La prima cosa bella (2010), con una Stefania Sandrelli piena di smemorata euforia (di «pazza gioia»?). Ma il papà era carabiniere e per un po’ di tempo fu trasferito a Torino. Dopo pochi anni la famiglia tornò «a casa», nel quartiere della Sorgente, costruito dopo le bombe di guerra e attraversato da una lunga via che arriva dalla periferia della città ai confini di Colle Salvetti. Cresciuto da quelle parti sino alla fine del liceo, prima di andarsene a Roma alla scoperta del cinema (prima ci fu una sosta di studio all’università della non amata Pisa), allievo del Centro sperimentale con Gianni Amelio e specialmente Furio Scarpelli come docenti capitali, Virzì diventa regista in proprio nel 1994 con La bella vita, la cronaca amara di un triangolo amoroso girata in una Piombino autunnale e piovosa, così triste che il titolo provvisorio era Dimenticare Piombino. Siamo sempre sulla costa toscana ma è come se Virzì avesse bisogno di una tappa di avvicinamento prima di piombare con la macchina da presa nella sua città per raccontare Ovosodo. Sono passati giusto vent’anni e Livorno onora film e regista con cinque giorni di festa (dal 18 al 23 luglio), proiezioni la sera alla Fortezza, alla Falsa Braga, con ingresso gratuito. E durante il giorno gite a piedi, in autobus, o in battello, attraverso i tanti quartieri della città: dalle ampie piazze del centro storico, alle vie del porto o alle industrie in periferia. Già i nomi sembrano versi epici, Torretta, Corea, Shangai (o se preferite Sciangai alla casalinga), La Venezia , I Bagni Pancaldi, l’Ardenza, la già ricordata Sorgente e naturalmente Benci-Centro, detto appunto Ovosodo per i colori bianchi e gialli delle case: o secondo altre fonti sono bianche e gialle le maglie dei rematori che disputano in nome della zona il Palio Marinaro. Probabilmente compito del bravo cronista sarebbe illustrare i quartieri uno per uno. Ma devo confessare che per me Livorno è una sorta di labirinto, in cui mi perdo facilmente se mi allontano dalla piazza grande e dalla lunga via con i portici moderni. Da ragazzo andavo ogni tanto al mercatino americano nella piazza di Sciangai (mi pare fosse lì, magari ancora c’è).
Si comprava di tutto. I primi jeans, le camicie colorate o da militare, la gomma da masticare, caramelle saporite e altre specialità. Ma mi è sempre rimasto il sospetto che fosse roba per turisti, uno spazio poco frequentato dai livornesi veraci. E infatti nel film di Virzì, che parla dell’educazione non solo sentimentale di Piero, un ragazzo poco fortunato mi sembra che il mercatino non ci sia mai. In compenso ci sono i palazzoni periferici, le fabbriche che possono imprigionarti tutta la vita e sullo sfondo il mare.
La storia semplice di Piero (Edoardo Gabbriellini), orfano della mamma, sorretto da una professoressa depressa ma brava (Nicoletta Braschi, al suo meglio), da un amico ricco e scapigliato (Marco Cocci) e dalla mite Susy (una ancora poco conosciuta Claudia Pandolfi), che finirà con sposare, si basa su una sceneggiatura forte, scritta dallo stesso Virzì insieme al fidato amico Francesco Bruni e al «maestro» Scarpelli; è quasi perfetta, rievoca in certi momenti Il romanzo popolare di Monicelli e nel finale persino il Rocco di Visconti. Insomma è un’opera importante ed è giusto che Livorno la festeggi. Piacque molto anche fuori dalla Toscana. Alla Mostra di Venezia gli fu assegnato il Premio speciale da una giuria che era presieduta dalla neozelandese Jane Campion. E l’anno dopo le candidature per i David e i Nastri d’Argento arrivarono a pioggia.
Che la città ne sia fiera, è dunque più che naturale. Anche se in precedenza non erano mancati film su Livorno e prossimi dintorni. Drammi da dopoguerra come Tombolo o Senza pietà di Lattuada. Nel 1957 Luchino Visconti aveva usato i vicoli e i canaletti del quartiere Venezia, facendo passeggiare dentro all’oscurità avvolgente Marcello Mastroianni nelle Notti bianche, per rievocare, a modo suo, la San Pietroburgo di Dostoevskij. E qualche anno dopo il raffinato Renato Castellani girò Mare matto, una novella alquanto stravagante, con Gina Lollobrigida e Jean Paul Belmondo nella parte di un marinaio seduttore detto «il livornese». Dopo essere partiti nella Roma deserta di Ferragosto, viaggiano verso Livorno anche lo smargiasso Vittorio Gassman e il tenero Jean Louis Trintignant nell’indimenticato Sorpasso di Dino Risi. Ma il cammino finirà prima, tragicamente, alla curva pericolosa di Calafuria. La citazione non è casuale; di film in film, Virzì si sta confermando il massimo continuatore della commedia italiana del decennio sessanta, discendente ideale di Risi, Monicelli, Ettore Scola e maestri del genere. Ma la «livornesità» cattiva è tutta sua, il suo fattore umano originale. Per questo nessuno aveva però provocato a Livorno l’entusiasmo suscitato dal brusco Paolo, che quando scherza non senza una dose di feroce allegria potrebbe sembrare anche un collaboratore del sempre brillante Il vernacoliere.
Mi fermo qui col paragone, a mio avviso è una lode, ma non vorrei offendere il regista. E rimanere attonito proprio come un ovosodo.
Dopo Risi Si sta confermando il massimo continuatore della commedia italiana del decennio sessanta