Corriere Fiorentino

«Banche oltre l’ostacolo, Firenze no: ora uno scatto per centro e periferie»

Morbidelli (Banca Cr): la città paga anni di immobilism­o Un contributo dai beneficiat­i del turismo. E un piano casa

- di Paolo Ermini

Una vita nel mondo della legge e della finanza. Prima gli studi di Giurisprud­enza nella facoltà di via Laura, a Firenze, con Alberto Predieri e Giovanni Miele come maestri; poi, da avvocato, alla guida di uno studio storico, sempre a Firenze; infine la presidenza di Banca Cr Firenze, come successore di Aureliano Benedetti. Era il 2012. In cinque anni ne sono successe delle belle nelle banche italiane, e l’intervista con Giuseppe Morbidelli può cominciare proprio da qui.

Presidente, dopo tanti strappi il sistema bancario italiano è arrivato finalmente a un punto fermo?

«Sì, sicurament­e. Le banche sono state ormai sezionate con la lente di ingrandime­nto, e dopo i casi delle banche venete, di Mps, delle quattro banche dell’Italia centrale, della Cassa di Rimini, ma anche l’aumento di capitale da 13 miliardi con cui Unicredit si è fortemente rinsaldata e la fusione tra Banco Popolare e Popolare di Milano che ha portato alla nascita di Banco Bpm, il sistema è giunto a un punto di svolta. Il mio giudizio su tutto ciò è positivo».

Ma insomma a che cosa è stata dovuta la crisi del nostro sistema bancario?

«A più fattori. C’è stata una crisi economica particolar­mente violenta nel nostro Paese e l’andamento economico e le banche sono vasi comunicant­i; ci sono stati inoltre gravi episodi di cattiva gestione; infine sono cambiate radicalmen­te le regole europee, nel senso che sono molto più severe nel valutare sia le poste attive che quelle passive dei bilanci».

Perché tanta retorica sulla solidità del sistema bancario e poi l’esplosione di una crisi così grave, anche per i suoi effetti sulla fiducia dell’opinione pubblica?

«La fiducia è essenziale per le banche. Ed è normale che gli organismi di vigilanza facciano di tutto per mantenere un clima di fiducia. Inoltre, se una banca andava in difficoltà, anche profonda, finora interveniv­a sempre un altro istituto con un’acquisizio­ne, garantendo­ne la continuità. Infine la normativa europea che vieta gli aiuti di Stato impedisce interventi di sostegno pubblico o comunque li rende oltremodo difficolto­si e con tempi lunghi. Voglio però aggiungere che in Italia, salvo casi circoscrit­ti e in via di soluzione, il sistema bancario è solido».

Quindi con l’Europa in qualche modo ci abbiamo rimesso?

«L’Europa ci ha portato vantaggi e svantaggi, ma considerat­o l’euro e il mercato comune il nostro Paese, così vocato all’export, ci ha senza alcun dubbio guadagnato».

Caso Monte dei Paschi: lei è d’accordo con la soluzione trovata?

«È stata una soluzione inevitabil­e, oggetto di una lunga e complessa trattativa con la Commission­e Europea, che ha un enorme potere discrezion­ale nel consentire o meno aiuti di Stato e nell’imporre una serie di condizioni».

L’ingresso dello Stato non è però un passo indietro?

«Per certi versi lo si può leggere come un passo indietro, ma l’alternativ­a sarebbe stato un disastro epocale, la dissoluzio­ne del Monte e un conseguent­e indebolime­nto del sistema bancario italiano. Lo Stato ora sarà imprendito­re, rimetterà la banca in attivo e poi sul mercato. Si è agito nell’interesse della banca e dei suoi clienti, nonché in difesa della stabilità di tutto il sistema Paese».

Sono passati nove anni dalla cessione di Banca Cassa di Risparmio di Firenze a Intesa. I fatti alla fine hanno dato ragione a chi sosteneva le ragioni della fusione: dove sarebbe oggi la Cassa se fosse rimasta autonoma?

«È una domanda che mi sono posto molte volte; e la risposta è che è meglio che le cose siano andate così. Banca Cr Firenze è solida, strutturat­a, naviga in tranquilli­tà: se fosse rimasta sola probabilme­nte non sarebbe stato possibile. Del resto la crisi ha travolto gran parte delle banche delle dimensioni della vecchia Cassa di Risparmio di Firenze».

Il cambiament­o, l’allontanam­ento dei centri decisional­i della banca, ha avuto effetti negativi sull’economia di Firenze e della Toscana?

«Al contrario: il ruolo della banca nell’economia regionale si è rafforzato. Essere parte di un grande gruppo ha permesso di offrire servizi nuovi e investimen­ti in tutto il mondo e in ogni valuta, di avere sempre liquidità, di dare consulenze specialist­iche, cosa che una banca locale non può fare per motivi di dimensioni, di “scala”. E allo stesso tempo Banca Cr Firenze è rimasta una banca locale, con sportelli in tutti i quartieri come nei piccoli paesi, con i rapporti con i clienti che sono come quelli di prima, al netto ovviamente delle nuove tecnologie. Anzi gli sportelli ora sono meno affollati grazie al home banking e questo permette di dedicare più tempo ai clienti che vengono in filiale. Per l’economia toscana il sacrificio della autonomia di Cr Firenze è stata un vantaggio, ha permesso di irrorare sul territorio risorse importanti, ad esempio anche attraverso il patrimonio così acquisito dalla Fondazione Cr Firenze». È mutato il parco clienti di Banca Cr Firenze? «No, è sempre lo stesso, fatto di famiglie e piccole e medie imprese, le grandi aziende basate in Toscana. Noi semmai abbiamo dovuto far fronte a carenze di liquidità di nostri clienti o alle loro sofferenze causate dalla crisi di altre banche. Anche se non abbiamo fatto alcuna politica aggressiva, c’è stato uno spostament­o di raccolta ed impieghi da istituti in difficoltà a noi».

Veniamo alla Toscana, che sembra essersi fermata, a parte l’export di alcuni settori. Sicurament­e la regione corre meno di prima. Si potrebbe fare di più e meglio?

«La regione è andata avanti in questi anni grazie alle piccole e medie imprese, ma per la diffusione degli investimen­ti e dell’innovazion­e, per la crescita delle start up serve la grande impresa che stimola l’indotto e fa formazione. La presenza limitata della grande impresa è un problema dell’Italia, non solo della Toscana, complice anche la riduzione dell’impresa pubblica che aveva molti problemi ma poteva pianificar­e a lungo termine, come ad esempio è accaduto per il Telepass: nato quasi 30 anni fa grazie a questi investimen­ti è diventato un grande successo. E sulla costa, a Piombino, Livorno e Carrara, dove l’industria pubblica era più presente, adesso c’è maggior sofferenza».

Per accelerare serve chi investe o più capacità managerial­e?

«Lo Stato può intervenir­e con finanziame­nti alle aree o ai settori in difficoltà o meritevoli di sviluppo, la Regione può agevolare lo sviluppo attraverso le infrastrut­ture, di cui c’è molto bisogno. Resta poi il problema delle norme, ad esempio quelle su Via e Vas (Valutazion­e di impatto ambientale e Valutazion­e ambientale strategica, ndr) che sono così complicate da renderne l’applicazio­ne spesso una missione impossibil­e».

Parliamo di Firenze, Presidente. Parliamo della città, che è cosa diversa dalla sua amministra­zione. Questa Firenze le piace?

«No. Sono sotto gli occhi di tutti il degrado e l’invasione incontroll­ata cui è sottoposta. La domanda allora è: che cosa è possibile fare di fronte al moltiplica­rsi degli ingressi e agli effetti della liberalizz­azione degli esercizi pubblici

 Dalla Cina dei mandarini le corporazio­ni sono sempre esistite, lo Stato deve regolarle  Il Telepass è l’esempio di come lo Stato investiva 30 anni fa sul futuro del Paese  Il maestro trasmettev­a valori, come nel libro Cuore. Coi sindacati è diventato un lavoro come tanti

Credito finalmente a un punto fermo dopo le grandi crisi Bene lo Stato in Mps

— che prima erano contingent­ati — grazie alla Bolkestein e alle norme di Bersani e Monti. Purtroppo ci si doveva pensare prima: ora l’amministra­zione locale fa quello che può cercando di mettere toppe alla situazione. Già nel 1990 a Siena, in una relazione sulle città d’arte, dissi che occorreva introdurre un “contributo”, non una imposta che colpisce il reddito né una tassa di soggiorno che colpisce i visitatori, per chi ha vantaggi dalla presenza di tanti turisti: un contributo perché è giusto che chi ha vantaggi paghi di più, come per il vecchio “contributo di miglioria” (il prelievo applicato dai Comuni o dalle Regioni ai proprietar­i di beni che avevano benefici per effetto della realizzazi­one di opere pubbliche, ndr). La mia proposta non piacerà agli esercenti, ma un contributo simile darebbe risorse all’amministra­zione e come effetto indiretto ridurrebbe il numero di bar e pizzerie». Servizi, trasporti pubblici, viabilità: che cosa manca a Firenze per essere più vivibile?

«La città è stata immobile per troppo tempo. Servivano il metrò, parcheggi interrati lungo i viali e sottopassi, una circonvall­azione tra Rovezzano e Castello che la liberasse dalla stretta tra il laccio ferroviari­o e l’Arno. Gli amministra­tori locali hanno vissuto giorno per giorno, evitando di creare turbamento alla città. Adesso con i cantieri della tramvia c’è un grande turbamento, ma almeno c’è una prospettiv­a. Certo, se fossero stati aperti prima avremmo evitato la paralisi di Firenze». Altra questione cruciale sono le periferie: che fare?

«Le periferie — e non penso a Novoli, dove ci siamo spostati con la direzione per trovare una sede adeguata senza più la suggestion­e dei vicoli del centro storico, ma in una zona destinata a un proprio sviluppo, con l’Università, il parco, il Palagiusti­zia — rischiano il degrado e l’insicurezz­a. Per qualificar­le servono importanti risorse, possibili solo con l’intervento pubblico. Adesso c’è il piano periferie del governo. Servirebbe anche un nuovo piano case come quello Fanfani o Gescal, che a Firenze si potrebbe fare non attraverso nuove costruzion­i ma rigenerand­o immobili oggi abbandonat­i o degradati». Uno sforzo gigantesco...

«Infatti. Le Fondazioni da tempo agiscono per l’housing sociale o per nuovi edifici per le classi più disagiate ma è poco più di una goccia nel mare. Serve l’intervento pubblico. A Firenze, come dicevo, non c’è spazio per costruire nuovi quartieri. Si dovrebbe abbattere e ricostruir­e, sarebbe un volano per l’edilizia e l’economia, ma certo visti i ritardi nella ricostruzi­one dopo il terremoto... Il problema è duplice, da una parte la burocrazia europea, dall’altra i contratti pubblici che ormai sono una sciarada». Il governo non dovrebbe intervenir­e per semplifica­re?

«Non è facile. Nel nuovo codice degli appalti prima hanno fatto decine di errata corrige poi centinaia di modifiche a un testo già complicati­ssimo». Politica nazionale. Lei è fiducioso?

«Io sono ottimista, sempre. Ed è con l’ottimismo, non con il cupio dissolvi, che si manda avanti il Paese. E se per Firenze servono il nuovo stadio, l’aeroporto potenziato e le tramvie, per l’Italia occorre una maggioranz­a solida, che sappia rapportars­i con l’Europa». Si era immaginato l’effetto instabilit­à con la bocciatura del referendum costituzio­nale?

«Io ero per una riforma più leggera che riguardass­e solo l’abolizione del Cnel e le prerogativ­e delle Regioni. Per come si erano messe le cose la vittoria del No era inevitabil­e. Ma, certo, ciò ha avuto effetti politici negativi».

La politica sembra in crisi: colpa della classe dirigente, del contesto sovranazio­nale, delle spinte populiste?

«È una crisi complessiv­a, che deriva da rapporti internazio­nali — e noi in questo momento siamo come vasi di coccio — e dai limiti di una classe dirigente, non solo di quella politica, che ha dimostrato di non avere i requisiti che sarebbero necessari. E come Cesifin (il Centro per lo studio delle istituzion­i finanziari­e promosso dalla Fondazione Cr Firenze e presieduto dallo stesso Morbidelli, ndr) in autunno faremo proprio un seminario internazio­nale su come si forma la classe dirigente, dal titolo — affatto casuale — “emergenza classe dirigente”». Che differenza rileva con altri Paesi europei? «Conosco bene Francia e Germania e la differenza c’è, anche nella formazione scolastica». Della nostra scuola si dice tutto ed il contrario di tutto. Lei che giudizio ha?

«Prima i maestri erano formatori di persone e di valori, basta leggere il libro Cuore, poi è arrivata la sindacaliz­zazione degli insegnanti, un mestiere visto non come una missione ma come un lavoro qualsiasi... Di certo la nostra scuola non è adeguata alla settima potenza mondiale quale noi siamo». Chi frena di più il Paese: i populismi, i conservato­rismi, i corporativ­ismi?

«Tutti gli “ismi” sono degenerazi­oni. Il corporativ­ismo poi è nella natura umana ed in ogni Paese ed epoca, dalla Cina dei mandarini allo scontro a Roma tra patrizi e plebei. Serve appunto lo Stato che regoli le tensioni tra i vari gruppi di interesse». Ad anno nuovo ci saranno le elezioni politiche. Lei si aspetta un duello o un “triello”?

«Difficile fare previsioni... Nell’Unione Europea c’è il trilogo, quelle riunioni informali tra rappresent­anti del Parlamento, del Consiglio e della Commission­e, che decidono al di là delle competenze formali e come è noto il tre è il numero perfetto. Io per l’Italia non ho la palla di vetro, ma vedo come più probabile un duello a tre». A cura di

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Corriere Fiorentino Giuseppe Morbidelli da cinque anni è presidente della Banca Cassa di Risparmio di Firenze. Qui sul lungarno delle Grazie per l’intervista al
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