«Banche oltre l’ostacolo, Firenze no: ora uno scatto per centro e periferie»
Morbidelli (Banca Cr): la città paga anni di immobilismo Un contributo dai beneficiati del turismo. E un piano casa
Una vita nel mondo della legge e della finanza. Prima gli studi di Giurisprudenza nella facoltà di via Laura, a Firenze, con Alberto Predieri e Giovanni Miele come maestri; poi, da avvocato, alla guida di uno studio storico, sempre a Firenze; infine la presidenza di Banca Cr Firenze, come successore di Aureliano Benedetti. Era il 2012. In cinque anni ne sono successe delle belle nelle banche italiane, e l’intervista con Giuseppe Morbidelli può cominciare proprio da qui.
Presidente, dopo tanti strappi il sistema bancario italiano è arrivato finalmente a un punto fermo?
«Sì, sicuramente. Le banche sono state ormai sezionate con la lente di ingrandimento, e dopo i casi delle banche venete, di Mps, delle quattro banche dell’Italia centrale, della Cassa di Rimini, ma anche l’aumento di capitale da 13 miliardi con cui Unicredit si è fortemente rinsaldata e la fusione tra Banco Popolare e Popolare di Milano che ha portato alla nascita di Banco Bpm, il sistema è giunto a un punto di svolta. Il mio giudizio su tutto ciò è positivo».
Ma insomma a che cosa è stata dovuta la crisi del nostro sistema bancario?
«A più fattori. C’è stata una crisi economica particolarmente violenta nel nostro Paese e l’andamento economico e le banche sono vasi comunicanti; ci sono stati inoltre gravi episodi di cattiva gestione; infine sono cambiate radicalmente le regole europee, nel senso che sono molto più severe nel valutare sia le poste attive che quelle passive dei bilanci».
Perché tanta retorica sulla solidità del sistema bancario e poi l’esplosione di una crisi così grave, anche per i suoi effetti sulla fiducia dell’opinione pubblica?
«La fiducia è essenziale per le banche. Ed è normale che gli organismi di vigilanza facciano di tutto per mantenere un clima di fiducia. Inoltre, se una banca andava in difficoltà, anche profonda, finora interveniva sempre un altro istituto con un’acquisizione, garantendone la continuità. Infine la normativa europea che vieta gli aiuti di Stato impedisce interventi di sostegno pubblico o comunque li rende oltremodo difficoltosi e con tempi lunghi. Voglio però aggiungere che in Italia, salvo casi circoscritti e in via di soluzione, il sistema bancario è solido».
Quindi con l’Europa in qualche modo ci abbiamo rimesso?
«L’Europa ci ha portato vantaggi e svantaggi, ma considerato l’euro e il mercato comune il nostro Paese, così vocato all’export, ci ha senza alcun dubbio guadagnato».
Caso Monte dei Paschi: lei è d’accordo con la soluzione trovata?
«È stata una soluzione inevitabile, oggetto di una lunga e complessa trattativa con la Commissione Europea, che ha un enorme potere discrezionale nel consentire o meno aiuti di Stato e nell’imporre una serie di condizioni».
L’ingresso dello Stato non è però un passo indietro?
«Per certi versi lo si può leggere come un passo indietro, ma l’alternativa sarebbe stato un disastro epocale, la dissoluzione del Monte e un conseguente indebolimento del sistema bancario italiano. Lo Stato ora sarà imprenditore, rimetterà la banca in attivo e poi sul mercato. Si è agito nell’interesse della banca e dei suoi clienti, nonché in difesa della stabilità di tutto il sistema Paese».
Sono passati nove anni dalla cessione di Banca Cassa di Risparmio di Firenze a Intesa. I fatti alla fine hanno dato ragione a chi sosteneva le ragioni della fusione: dove sarebbe oggi la Cassa se fosse rimasta autonoma?
«È una domanda che mi sono posto molte volte; e la risposta è che è meglio che le cose siano andate così. Banca Cr Firenze è solida, strutturata, naviga in tranquillità: se fosse rimasta sola probabilmente non sarebbe stato possibile. Del resto la crisi ha travolto gran parte delle banche delle dimensioni della vecchia Cassa di Risparmio di Firenze».
Il cambiamento, l’allontanamento dei centri decisionali della banca, ha avuto effetti negativi sull’economia di Firenze e della Toscana?
«Al contrario: il ruolo della banca nell’economia regionale si è rafforzato. Essere parte di un grande gruppo ha permesso di offrire servizi nuovi e investimenti in tutto il mondo e in ogni valuta, di avere sempre liquidità, di dare consulenze specialistiche, cosa che una banca locale non può fare per motivi di dimensioni, di “scala”. E allo stesso tempo Banca Cr Firenze è rimasta una banca locale, con sportelli in tutti i quartieri come nei piccoli paesi, con i rapporti con i clienti che sono come quelli di prima, al netto ovviamente delle nuove tecnologie. Anzi gli sportelli ora sono meno affollati grazie al home banking e questo permette di dedicare più tempo ai clienti che vengono in filiale. Per l’economia toscana il sacrificio della autonomia di Cr Firenze è stata un vantaggio, ha permesso di irrorare sul territorio risorse importanti, ad esempio anche attraverso il patrimonio così acquisito dalla Fondazione Cr Firenze». È mutato il parco clienti di Banca Cr Firenze? «No, è sempre lo stesso, fatto di famiglie e piccole e medie imprese, le grandi aziende basate in Toscana. Noi semmai abbiamo dovuto far fronte a carenze di liquidità di nostri clienti o alle loro sofferenze causate dalla crisi di altre banche. Anche se non abbiamo fatto alcuna politica aggressiva, c’è stato uno spostamento di raccolta ed impieghi da istituti in difficoltà a noi».
Veniamo alla Toscana, che sembra essersi fermata, a parte l’export di alcuni settori. Sicuramente la regione corre meno di prima. Si potrebbe fare di più e meglio?
«La regione è andata avanti in questi anni grazie alle piccole e medie imprese, ma per la diffusione degli investimenti e dell’innovazione, per la crescita delle start up serve la grande impresa che stimola l’indotto e fa formazione. La presenza limitata della grande impresa è un problema dell’Italia, non solo della Toscana, complice anche la riduzione dell’impresa pubblica che aveva molti problemi ma poteva pianificare a lungo termine, come ad esempio è accaduto per il Telepass: nato quasi 30 anni fa grazie a questi investimenti è diventato un grande successo. E sulla costa, a Piombino, Livorno e Carrara, dove l’industria pubblica era più presente, adesso c’è maggior sofferenza».
Per accelerare serve chi investe o più capacità manageriale?
«Lo Stato può intervenire con finanziamenti alle aree o ai settori in difficoltà o meritevoli di sviluppo, la Regione può agevolare lo sviluppo attraverso le infrastrutture, di cui c’è molto bisogno. Resta poi il problema delle norme, ad esempio quelle su Via e Vas (Valutazione di impatto ambientale e Valutazione ambientale strategica, ndr) che sono così complicate da renderne l’applicazione spesso una missione impossibile».
Parliamo di Firenze, Presidente. Parliamo della città, che è cosa diversa dalla sua amministrazione. Questa Firenze le piace?
«No. Sono sotto gli occhi di tutti il degrado e l’invasione incontrollata cui è sottoposta. La domanda allora è: che cosa è possibile fare di fronte al moltiplicarsi degli ingressi e agli effetti della liberalizzazione degli esercizi pubblici
Dalla Cina dei mandarini le corporazioni sono sempre esistite, lo Stato deve regolarle Il Telepass è l’esempio di come lo Stato investiva 30 anni fa sul futuro del Paese Il maestro trasmetteva valori, come nel libro Cuore. Coi sindacati è diventato un lavoro come tanti
Credito finalmente a un punto fermo dopo le grandi crisi Bene lo Stato in Mps
— che prima erano contingentati — grazie alla Bolkestein e alle norme di Bersani e Monti. Purtroppo ci si doveva pensare prima: ora l’amministrazione locale fa quello che può cercando di mettere toppe alla situazione. Già nel 1990 a Siena, in una relazione sulle città d’arte, dissi che occorreva introdurre un “contributo”, non una imposta che colpisce il reddito né una tassa di soggiorno che colpisce i visitatori, per chi ha vantaggi dalla presenza di tanti turisti: un contributo perché è giusto che chi ha vantaggi paghi di più, come per il vecchio “contributo di miglioria” (il prelievo applicato dai Comuni o dalle Regioni ai proprietari di beni che avevano benefici per effetto della realizzazione di opere pubbliche, ndr). La mia proposta non piacerà agli esercenti, ma un contributo simile darebbe risorse all’amministrazione e come effetto indiretto ridurrebbe il numero di bar e pizzerie». Servizi, trasporti pubblici, viabilità: che cosa manca a Firenze per essere più vivibile?
«La città è stata immobile per troppo tempo. Servivano il metrò, parcheggi interrati lungo i viali e sottopassi, una circonvallazione tra Rovezzano e Castello che la liberasse dalla stretta tra il laccio ferroviario e l’Arno. Gli amministratori locali hanno vissuto giorno per giorno, evitando di creare turbamento alla città. Adesso con i cantieri della tramvia c’è un grande turbamento, ma almeno c’è una prospettiva. Certo, se fossero stati aperti prima avremmo evitato la paralisi di Firenze». Altra questione cruciale sono le periferie: che fare?
«Le periferie — e non penso a Novoli, dove ci siamo spostati con la direzione per trovare una sede adeguata senza più la suggestione dei vicoli del centro storico, ma in una zona destinata a un proprio sviluppo, con l’Università, il parco, il Palagiustizia — rischiano il degrado e l’insicurezza. Per qualificarle servono importanti risorse, possibili solo con l’intervento pubblico. Adesso c’è il piano periferie del governo. Servirebbe anche un nuovo piano case come quello Fanfani o Gescal, che a Firenze si potrebbe fare non attraverso nuove costruzioni ma rigenerando immobili oggi abbandonati o degradati». Uno sforzo gigantesco...
«Infatti. Le Fondazioni da tempo agiscono per l’housing sociale o per nuovi edifici per le classi più disagiate ma è poco più di una goccia nel mare. Serve l’intervento pubblico. A Firenze, come dicevo, non c’è spazio per costruire nuovi quartieri. Si dovrebbe abbattere e ricostruire, sarebbe un volano per l’edilizia e l’economia, ma certo visti i ritardi nella ricostruzione dopo il terremoto... Il problema è duplice, da una parte la burocrazia europea, dall’altra i contratti pubblici che ormai sono una sciarada». Il governo non dovrebbe intervenire per semplificare?
«Non è facile. Nel nuovo codice degli appalti prima hanno fatto decine di errata corrige poi centinaia di modifiche a un testo già complicatissimo». Politica nazionale. Lei è fiducioso?
«Io sono ottimista, sempre. Ed è con l’ottimismo, non con il cupio dissolvi, che si manda avanti il Paese. E se per Firenze servono il nuovo stadio, l’aeroporto potenziato e le tramvie, per l’Italia occorre una maggioranza solida, che sappia rapportarsi con l’Europa». Si era immaginato l’effetto instabilità con la bocciatura del referendum costituzionale?
«Io ero per una riforma più leggera che riguardasse solo l’abolizione del Cnel e le prerogative delle Regioni. Per come si erano messe le cose la vittoria del No era inevitabile. Ma, certo, ciò ha avuto effetti politici negativi».
La politica sembra in crisi: colpa della classe dirigente, del contesto sovranazionale, delle spinte populiste?
«È una crisi complessiva, che deriva da rapporti internazionali — e noi in questo momento siamo come vasi di coccio — e dai limiti di una classe dirigente, non solo di quella politica, che ha dimostrato di non avere i requisiti che sarebbero necessari. E come Cesifin (il Centro per lo studio delle istituzioni finanziarie promosso dalla Fondazione Cr Firenze e presieduto dallo stesso Morbidelli, ndr) in autunno faremo proprio un seminario internazionale su come si forma la classe dirigente, dal titolo — affatto casuale — “emergenza classe dirigente”». Che differenza rileva con altri Paesi europei? «Conosco bene Francia e Germania e la differenza c’è, anche nella formazione scolastica». Della nostra scuola si dice tutto ed il contrario di tutto. Lei che giudizio ha?
«Prima i maestri erano formatori di persone e di valori, basta leggere il libro Cuore, poi è arrivata la sindacalizzazione degli insegnanti, un mestiere visto non come una missione ma come un lavoro qualsiasi... Di certo la nostra scuola non è adeguata alla settima potenza mondiale quale noi siamo». Chi frena di più il Paese: i populismi, i conservatorismi, i corporativismi?
«Tutti gli “ismi” sono degenerazioni. Il corporativismo poi è nella natura umana ed in ogni Paese ed epoca, dalla Cina dei mandarini allo scontro a Roma tra patrizi e plebei. Serve appunto lo Stato che regoli le tensioni tra i vari gruppi di interesse». Ad anno nuovo ci saranno le elezioni politiche. Lei si aspetta un duello o un “triello”?
«Difficile fare previsioni... Nell’Unione Europea c’è il trilogo, quelle riunioni informali tra rappresentanti del Parlamento, del Consiglio e della Commissione, che decidono al di là delle competenze formali e come è noto il tre è il numero perfetto. Io per l’Italia non ho la palla di vetro, ma vedo come più probabile un duello a tre». A cura di