Le goliardate di Campana
I giorni all’università di Bologna, le scorribande, i ritrovi gaudenti, i comizi chiassosi La giovinezza del poeta nei ricordi dello scrittore Federico Ravagli, l’amico che intuì il suo talento
Nell’albo d’oro della poesia italiana del ‘900 Dino Campana occupa un posto di rilievo. E si tratta di un rango ampiamente meritato perché il poeta di Marradi fu, al pari di Arthur Rimbaud, un «ladro di fuoco». Nel senso di una conturbante effervescenza creativa, che trae fuori dalla realtà e dai più intimi recessi dello spirito gran copia di immagini ed emozioni, umori e colori, suggestioni e provocazioni in una sfida continua, che spiazza il lettore.
Campana, come è noto, sapeva che i suoi Canti Orfici erano, per dirla con Nietzsche, «un libro per tutti e per nessuno» e che, per essere inteso, esigeva una vera e propria complicità dello spirito; ma era perfettamente consapevole, da allucinato di genio, che a quell’impeto visionario nulla poteva essere tolto. Lì dentro c’era la sua vita: «spericolata» quanto mai. E lì dentro c’erano le «ragioni» della sua follia. Già, Campana «matto da legare» e infine, per volontà di chi diceva di amarlo, internato nel manicomio di Castel Pulci, presso Badia a Settimo, dove resterà dal 1918 al 1932, quando muore in seguito a un’infezione che si era procurata scavalcando un recinto di filo spinato. Da allora l’aura del «maledetto» e del «bello e dannato» gli resterà sospesa sul capo. Giustamente: perché Campana era così. Ma nella sua breve esistenza (47 anni) è tale il sovraccarico di luci ed ombre che ogni definizione appare inadeguata. Ed appare dunque sacrosanto l’impegno del Centro Studi Campaniani Enrico Consolini di Marradi che da anni attinge a documenti e testimonianze per restituirci un Campana, a un tempo «personaggio» e «persona». L’ha fatto lo scorso anno ricostruendo la breve, rovente storia d’amore tra il poeta e Sibilla Aleramo; lo fa adesso riproponendo il Fascicolo marradese inedito del poeta dei Canti Orfici (a cura di Federico Ravagli, con introduzione di Mirna Gentilini). Di cosa si tratta? Di due distinti gruppi di manoscritti, consegnati a Ravagli nel 1942 da Maria Soldaini Campana e da Manlio Campana, cugina e fratello del poeta, dopo che lo scrittore romagnolo aveva dato alle stampe quel Campana e i goliardi del suo tempo che avevano letto con piacere. Ma chi era Ravagli? Un colorito scrittore romagnolo, giornalista e insegnante, che, nel 1912, quando era studente all’Università di Bologna, conobbe Campana, fuoricorso alla facoltà di Chimica, gli fu amico e compagno di scorribande goliardiche, ne intuì la tempestosa originalità, ne favorì, insieme ad altri, il battesimo letterario, ospitando sul Papiro, «Nobilis Charta Universitaria», poesie come La Chimera, Cafard e Dualismo. Rispettivamente firmate con gli pseudonimi di «Campanone», «Campanula» e «Din-Don». Un amico, Ravagli, che in più occasioni scriverà sul Campana «bolognese»: così, nel «Fascicolo» — apparso, postumo, nel 1972 per la Marzocco ed ora ristampato con integrazione di saggi e di articoli — sono numerosi i ricordi, al tempo stesso affettuosi e puntuali. Già, com’era il Campana «studente»? Un tipo tarchiato, biondastro, con l’aria dell’«eccentrico mercante con radi affari», e anche accigliato, male in arnese, rude, taciturno, per certi aspetti primitivo. Un tipo «strambo» che le commesse dei caffè frequentati dagli studenti, i camerieri, gli estranei guardavano «con circospetta ilarità». E tuttavia quel fuoricorso di Chimica che detestava la Chimica e che le matricolo consideravano anzianotto (aveva allora 27 anni) si inserì nella gaia brigata romagnola e addirittura prese parte a delle goliardate. Ad esempio, una volta senza dire una parola, prese una sedia in un bar di Piazza Garibaldi e se la portò imperturbabile per strada fino in Piazza Nettuno, dove, in mezzo alle matte risate, «la issò sul Gigante». Eppure, questo stesso Campana che faceva il ragazzaccio e che partecipava «ai comizi chiassosi, alle agitazioni scioperaiole, ai ritrovi gaudenti», restava «selvatico» e spesso «si traeva in disparte per seguire le sue erranti fantasie». Salvo, quando si confidava, rivelare una straordinaria conoscenza dei poeti moderni, che leggeva direttamente sul testo nella lingua madre.
Il «Fascicolo marradese» evoca dunque, con le tante testimonianze, una breve (nel 1913, Campana, che aveva già vagabondato per il mondo facendo mille mestieri, si trasferì prima a Genova, poi a La spezia e infine in Sardegna) ma significativa stagione della vita di Dino, aggiungendo tocchi e sfumature alla sua immagine. Ai lettori più attenti e ai filologi, poi, il piacere di cimentarsi con il materiale manoscritto. Il primo fascicolo, composto da tre foglietti di quaderno, riporta la poesia Il Bacio dell’amato Verlaine con la traduzione della sola ultima strofa, oltre al testo in lingua inglese e alla traduzione di una quartina «Sotto quale grave mucchio di neve» che Ravagli definisce di autore ignoto: in realtà, si tratta della poetessa Julia Ward Howe, identificata, nel 2014, dalla ricercatrice dell’Università di Cagliari Susanna Sitzia. Il secondo gruppo (diciotto facciate formato protocollo), propone abbozzi, frammenti, stesure iniziali di prose, su cui poi Dino tornerà a più riprese. E l’intrico delle cancellature mostra quanto «il ladro di fuoco» rileggesse, limasse e rifinisse i suoi scritti. Come nel «veggente» Rimbaud, infatti, l’improvviso bagliore del «lampo» non deve esaurirsi ma diventare «illuminazione».
Nuovi documenti preziosi grazie al Centro Studi di Marradi