Questa casa non è un museo
Villa Brandi, dopo una complicata trattativa, fu ceduta dallo storico dell’arte allo Stato Una preziosa dimora di campagna, ricca di opere d’arte e libri, sul cui utilizzo servirebbe una svolta
Villa Brandi era tra i tredici «gioielli» che il Mibact (Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo) avrebbe voluto affidare in gestione a organizzazioni onlus attive nel settore. Insieme all’edificio situato a Siena in località Vignano, comparivano nella lista del bando all’uopo emesso altri due luoghi della Toscana: l’Eremo di San Leonardo al lago (Monteriggioni) e l’Abbazia di Soffena nell’aretino. Tutti e tre sono stati ignorati.
Il caso delle Villa snobbata spicca per la sua peculiarità e per come esemplifica un problema delicatissimo. Il senese Cesare Brandi (1906-1988), critico e storico dell’arte, teorico del restauro, autore di trattati di estetica ormai classici, voleva in ogni modo che la sua residenza, di probabile disegno peruzziano, diventasse un bene pubblico, da conservare con filologica fedeltà nelle sue forme quale intatto documento di una società e di un gusto. Le pratiche per donarlo allo Stato richiesero una tenacia enorme. «In Italia è facile rubare, ma quando si tratta di donare, mi creda, gli ostacoli si moltiplicano all’infinito»: negli ultimi tempi Brandi si era scoraggiato. Ma non si arrese e con la partecipe collaborazione di Vittorio Brandi Rubiu, figlio adottivo che condivideva generosamente l’obiettivo, il Professore — titolo che suonava rispettosa ironia — riuscì alfine del suo nobile intento. La sua era — ed è — una sobria dimora padronale, arricchita da opere d’arte che la rendono unica. Acquistata dai Brandi nella seconda metà del Settecento, l’abitazione custodisce quadri della storica scuola senese e sculture contemporanee. La donazione includeva tredicimila lettere ed una raccolta fotografica imponente. Nella tinaia all’ingresso sono ora esposte immagini che illustrano amicizie, passioni e viaggi. E intorno, inseriti con un sorvegliato senso scenografico, spuntano capolavori di Ceroli e Burri, di Leoncillo e Mattiacci, di Guttuso e Manzù, di Mastroianni e Morandi.
Membri tutti dell’eletta schiera di personalità che facevano corona ad un magistero disdegnoso di recinti accademici. Occorre riconoscere che gestire un bene del genere non era — e non è — facile. Brandi era uomo di affetti tenaci e aveva pensato parecchie clausole che si rivelarono complicate. Desiderava, ad esempio, che i contadini che avevano dedicato una cura appassionata alla coltivazione della terra ricompresa nella proprietà conservassero l’usufrutto. Lattanzio e Bianca erano per lui membri di famiglia. Con fatica si giunse, a furia di limare e precisare, all’atto di donazione allo Stato. Destinatarie le Soprintendenze — allora erano due — che hanno fatto diversi interventi e promosso feconde iniziative.
Il passaggio di Villa Brandi nella schiera della quarantina di siti costitutivi del Polo museale della Toscana diretto da Stefano Casciu avrebbe potuto rivelarsi una svolta positiva e incitare a soluzioni di sistema. L’idea di inserire una costruzione così caratterizzata e defi- L’interno della Villa di Cesare Brandi con la ricca biblioteca e l’esterno nita tra altre di immediato uso non è stata felice. Le opere contemporanee sono state tolte e prese in custodia per evitare furti o deperimenti. La biblioteca è stata schedata a dovere. La tipologia entro la quale è inserita è quella della Casa Museo: un utilizzazione pratica e plausibile di spazi così obbliganti non è impresa a portata di mano. Uno scopo residenziale non è pensabile. L’organizzazione di incontri, seminari o convegni, in accordo magari con l’Università, non è semplice, anche per l’ubicazione, tanto affascinante quanto impervia. Emerge — duole dirlo — l’errore di includere realtà del genere insieme ad altre assai più vocate per varie attività sociali. Per onorare il gesto di civico attaccamento e disinteressato amore compiuto da Cesare Brandi non resta che considerare il bene per quello che è: un documento, appunto, del modo di vivere di un’aristocrazia che amava la campagna e la sentiva come un osservatorio dal quale sembrasse di non distaccarsi da Siena, dalla città-madre.
Aggiungere l’inflazionata parola di museo a quella di casa, che rimanda idee di vissuto quotidiano, di privato immodificabile urta la sensibilità di chi è convinto che il criterio base non possa essere che quello di tramandarla come fosse un codice dotato di una compiutezza avversa a qualunque manipolazione. Un libro non scritto, l’esemplificato modulo di abitudini scomparse: d’inverno si stava in città, ma appena sbocciava la primavera ci si trasferiva, contenti, nei pressi: «Finalmente si sarebbe lasciato Siena, la sua ombra gelida», ha scritto Brandi. «Nessuna vista — aggiunse — è più bella: la città è tutta distesa all’orizzonte come il gruppo della Torre del Mangia, del campanile, della cupola del Duomo al mezzo, e attorno tutte case antiche, di un bel rosso mattone e grigie: ai due estremi due monticelli, Montieri e Monte Maggio. Veramente sembra dipinta».
Attrezzarla come un museino-kitsch rimuovendone suppellettili e ammennicoli equivarrebbe a distruggerla. Lo Stato e il Polo che lo incarna in Toscana dovrebbero rassegnarsi a gestirla in prima persona, impegnandovi le risorse necessarie, per organizzarci piccole mostre, mirati seminari, corsi di studio e facendovi circolare l’aria come ai bei tempi. Del resto questa linea era stata già avviata, con garbo e rigore. Villa Brandi non è i Tatti di Berenson o Villa La Pietra di lord Acton. Ha la misura domestica di un intellettuale che non fece dell’arte segno di prestigio o ossessione di collezionismo. E dichiara un’affabile ospitalità anche ora che il padrone se n’è andato. Conservare costa. Non è detto che tutto debba diventare laboratorio di chissà che cosa. O essere concesso a organismi di privati perché lo gestiscano a piacere stravolgendone i profili e uccidendone l’anima.
Il Polo toscano dovrebbe rassegnarsi a gestirla in prima persona e organizzarci piccole mostre, seminari, corsi di studio