LA GUERRA DELLE UOVA TRA INSUESI E INGIUESI
Fucecchio: la storica divisione tra chi abita nella parte antica, in alto, e chi in quella bassa Ogni estate il duello sulla scalinata. La conclusione? Meglio la competenza della demagogia
Dovete sapere che Fucecchio, mia patria, è un paese di Valdarno, sito a mezza strada fra Pisa e Firenze. È un paese abbastanza antico, sviluppatosi intorno al nocciolo feudale di un castello fiorentino, come sono molti paesi di quella contrada. Il castello, ora, non esiste quasi più: sono rimaste solo una torre piena di gufi e di civette e alcune mura diroccate. Tutto ciò sta in cima a una collina aguzza e a corona di questa cima è la parte antica del paese con le sue antiche famiglie di signori e di servi. C’è la Chiesa della Collegiata, molto grande e anche abbastanza bella, e ci sono alcuni palazzotti, il più famoso dei quali apparteneva appunto alla casata di mia madre, i Dòddoli.
Con l’andar del tempo, il paese si mise a scendere in basso, verso la piana, l’Arno e le strade. Qui si adagiò e prese a ingrossare soprattutto come mercato agricolo. Poiché è buona regola di ogni borgata toscana di dividersi sempre in due fazioni, Fucecchio si divise in «insuesi» e «ingiuesi». Gl’insuesi erano quelli che stavano per in su, cioè nella parte antica, intorno al castello e alla Chiesa della Collegiata; ingiuesi quelli che stavano per in giù, cioè lungo le strade provinciali che menano a Firenze, a Pisa e a Lucca. Al principio di questo secolo gl’insuesi erano già in minoranza rispetto agl’ingiuesi, ma si tenevano ancora forti col prestigio della tradizione aristocratica: infatti il fior fiore del paese era tutto per in su, costituito da proprietari di campagna, i cui cadetti facevano i professionisti. Gl’ingiuesi, dal canto loro, più numerosi e attivi, aspiravano tutti a diventare insuesi, ma non potendolo per via dello spazio limitato, facevano gran baccano per obbligare gli insuesi a venire in giù. Ci furono anche dei casi d’ingiuesi che, fatta fortuna, andarono a stare per in su soppiantando nei loro palazzetti gl’insuesi che si erano mangiato il feudo. Ma, fino alla grande guerra, questi cambi della guardia nelle gerarchie economiche e sociali del paese erano fortunatamente abbastanza rari, eppoi gl’insuesi di Fucecchio, non erano per nulla disposti a considerar pari loro gl’ingiuesi arricchiti solo perché avevano comprato una casa per in su. Eh, ci voleva altro! Ci volevano almeno un paio di generazioni e qualche matrimonio ben combinato. Questo dava e dà ancora luogo a molte discussioni. Ma, essendo io un mezzo sangue — insuese di madre e ingiuese di padre — mi sembra di essere in buona posizione per giudicare: e giudico senz’altro molto opportuna questa politica di casta e di resistenza degl’insuesi che, finché furono abbastanza forti per reggere e dirigere la cosa pubblica, lo fecero con poche idee e molta coscienza. Mentre gl’ingiuesi li abbiamo visti, poi, cos’hanno fatto, quando vennero al potere, con tutte le loro idee nuove!
Negli anni che precedettero la mia nascita, la quale avvenne nel 1909, gli odi di fazione fra insuesi e ingiuesi erano al colmo. Gl’ingiuesi avevano ora le scuole elementari e tecniche, avevano il teatro, i negozi migliori, quasi per intero il luogo del mercato (solo una piccola frazione si svolgeva per in su, in piazza della Collegiata) e due delle tre farmacie. Per in su non erano rimasti che la Chiesa e i ruderi del Castello, e a lasciarli fare, gli ingiuesi avrebbero, come diceva mio nonno, fatto franare il poggio per portar giù anche quelli. Quanto al Municipio, resisteva ancora alla meglio, visto che i sindaci erano sempre di razza insuese, ma di concessione in concessione era sceso sempre più in giù e ora si teneva aggrappato appena alle ultime pendici.
La guerra intestina che provocava questa evoluzione verso il basso scoppiava ogni anno, d’estate, come un bubbone, in una specie di palio paesano, che si chiamava «la battaglia degl’insuesi e degl’ingiuesi» e aveva per teatro la scalinata di mattoni (143 gradini, se non sbaglio) per cui, a settentrione, il poggio digrada verso la strada di Lucca. Si svolgeva a base di uo- va fradicie fatte infracidire per l’occasione dalle due parti, i cui capitani cominciavano a farne incetta nella campagna un mese e anche due mesi prima dello scontro, ognuno badando ad accumulare più munizioni dell’avversario. L’esercito ingiuese era un esercito, come oggi si direbbe, di leva, un esercito napoleonico o nazionale, ogni cittadino un soldato. L’esercito insuese era un esercito di mestiere, di professionisti o mercenari, pochi, allenati tutto l’anno per la bisogna, a spese dei signori insuesi che nella battaglia vedevano impegnato il loro prestigio.
I signori non vi partecipavano, nemmeno come capitani. Si limitavano a fornire, di sottomano, quattrini e consigli. Il giorno fatale, seminascosti dentro il fogliame dei loro giardini che si allineavano in lunga terrazza digradante a destra del poggio, essi assistevano trepidanti allo scontro. Il piccolo esercito insuese era allineato in silenzio in cima alla scalinata, composto quasi tutto di artiglieri dall’occhio infallibile, seri, gravi, malvestiti. I vecchi tiratori eran serviti dai giovani apprendisti e combattevano in uno stretto spazio, quello rinchiuso tra il primo giardino, palazzo Dòddoli e il muro della Collegiata. Le donne e i vecchi si aggrumavano in disparte pregando per la sorte della bandiera. L’esercito ingiuese veniva baldanzoso e sterminato lungo la strada di Lucca, fra sventolio di stendardi, canzoni di vittoria, arringhe di demagoghi; e si schierava in fondo alla scalinata. Quelli di su dovevano sloggiare quelli di giù e viceversa. I carabinieri assistevano in disparte perché la pugna non uscisse dall’ambito delle uova.
La battaglia cominciava alle due del pomeriggio e si protraeva, in genere, per due o tre ore. La sua prima fase era vinta quasi sempre dagl’ingiuesi che partivano all’attacco con plotoni di arditi e, lottando con furore, pungolati dal tifo assordante dei sostenitori, guadagnavano gualche decina di scalini. Poi il loro impeto si spegneva e gl’insuesi riguadagnavano a poco a poco terreno. Essi combattevano senza punto entusiasmo, ma con molta serietà professionale, in silenzio, fra le preghiere della popolazione. E quasi sempre vincevano ricacciando gl’ingiuesi che a un certo punto venivano colti dal panico e fuggivano a precipizio, tifosi, combattenti, bandiere e demagoghi mescolati insieme. La vittoria veniva celebrata, la sera, con pochi discorsi e molti barili di vino distribuiti dai signorotti, i quali tuttavia affettavano di ignorare l’accaduto.
Io non ricordo che vagamente queste guerre. Da allora ne ho viste altre — e di più serie. Ma la mia filosofia militare si formò tutta nello studio delle battaglie fra insuesi e ingiuesi le quali m’insegnarono ad apprezzare gli eserciti di mestiere molto più che quelli di leva; a diffidare dell’entusiasmo, a considerare catastrofica l’applicazione della demagogia alla milizia, a deplorare l’inflazione di parole, di applausi e di decorazioni che facevano gli ingiuesi, e a dubitare dell’eroismo degli eroi (…).
(Estratto da «Gente Qualunque», 1942, Bompiani. © Eredi Indro Montanelli. Published by arrangement with The Italian Literary Agency)