STORIE DI PIATTO LA CENA DI ANGHIARI
Dal 10 al 19 la piazzetta del Poggiolino si trasforma per «Tovaglia a quadri» Tra una portata e l’altra lo spettacolo con gli abitanti protagonisti «Quest’anno giochiamo sulla secessione del borgo e ironizziamo sulle sagre»
C’è Ermindo «il cinghialaio» con le sue sparate da critico disfattista. Con Sergino il cameriere matto che, al contrario, avrà sicuramente in serbo qualche nuova diavoleria fantasiosa da propinare agli spettatori-commensali. E poi Ada, Marta e Maris affacciate dalle finestre delle loro case a dispensar consigli conditi di coloriti improperi. Il paese di Anghiari nella Valtiberina toscana è da sempre fedele a se stesso, bello e accogliente con i visitatori, ricco di storia, gastronomia e ironia. Ogni anno mette in scena il suo spirito guascone e la sua voglia di riflettere sul presente pur mantenendo sempre un piede ben saldo nella tradizione e come ogni Ferragosto lo fa intorno a una tavola apparecchiata con una «Tovaglia a quadri», dove la realtà diventa teatro e il teatro lo fanno gli abitanti del borgo. Un «teatro povero» come a Monticchiello ma con in più la cena in tema con la storia e tanta voglia di scherzare, soprattutto sulle cose serie, politica in primis.
Quest’anno è in gioco la «toscanità» stessa del paese in provincia di Arezzo a due passi da Sansepolcro. Perché il protagonista della storia è un pericoloso referendum secessionista richiesto a gran voce dalla cittadinanza: cosa deciderà il borgo di Anghiari, «porta del Granducato sullo Stato Pontificio»? Rimarrà annesso alla Toscana, o chiederà asilo all’Umbria, oppure ancora preferirà crearsi uno Stato a sé, una sorta di «Padania» in salsa valtiberina?
Di questo si parla, o meglio si recita, si ride e si scherza, nella nuova edizione di «Tovaglia a quadri», lo spassoso e sempre acuto «spettacolo teatrale in quattro portate» che da 21 anni anima la piazzetta del Poggiolino della città della battaglia. La ventiduesima edizione che va in scena dal 10 al 19 agosto, come sempre scritta da Andrea Merendelli e Paolo Pennacchini, si intitola Via da noi. Al centro della scena, che poi è il ristorante di donna Cecilia, sexy oste severa ma giusta, padrona del locale sia nella vita che nella finzione scenica insieme all’altrettanto pugnace e bella figlia Elisa, gli spettatori assistono allo spettacolo mangiando i piatti tipici della zona, come i bringoli al sugo e la pregiata carne valtiberina. «La vicenda che raccontiamo quest’anno si rifà all’antica Repubblica di Cospaia che per 400 anni, proprio qui vicino — racconta Andrea Merendelli, autore e anche regista — è stata terra di nessuno tra Granducato e Stato Pontificio, rifugio storico di malfattori». Via da noi nel senso di «via dalla nostra identità e storia, dai simboli come il Pegaso e il Giglio fiorentino, o dai bringoli stessi che in qualsiasi altro posto chiamano pici ma qui diamo nomi nostri anche
alla pasta». È la storia di «una rivolta interna che sottintende un atto d’amore totale per i pregi e le brutture di una terra spesso vista come una Toscana minore». Con un coro di omaggi musicali che racconta «la nostra identità culturale che rischia di scomparire, quella di un popolo che ha saputo trasformare la polemica in letteratura». Il testo, promette Merendelli, «ha dentro cose talmente grottesche da essere vere, come la mania delle sagre che ci ha portato anche a inventare la “sagra delle sagre”». Insomma, si può dire che «ci siamo autosagratizzati».