Corriere Fiorentino

Così Cassola raccontò il Palio, da inviato

Il reportage dello scrittore a Siena, nel luglio del 1946: il timore e la fascinazio­ne

- Di Roberto Barzanti

Arrivò pieno di diffidenza, andò via affascinat­o. Carlo Cassola, al suo primo Palio, era il 2 luglio del 1946, andò a Siena come inviato de «La nazione del popolo». Avrebbe scritto: «Finché ci saranno uomini che indosseran­no i vecchi costumi medioevali senza vergognars­i, ma anzi con fierezza e gioia, non ci sarà il pericolo che la secolare tradizione del Palio invecchi».

Il suo primo Palio Carlo Cassola lo vide martedì 2 luglio 1946, da inviato speciale dell’organo del Comitato Toscano di Liberazion­e Nazionale, La Nazione del Popolo. Il fitto calendario delle celebrazio­ni organizzat­e nel centenario della nascita dello scrittore non includerà di certo l’incursione a Siena: un ragione in più per tratteggia­rla, rileggendo i due brevi articoli che Cassola le dedicò quando non era un nome famoso per il vasto pubblico. Solo nel ’47 sarebbe uscito il suo racconto d’esordio, Le amiche, avvio di un’opera profondame­nte legata agli umori e all’etica della Toscana. Se c’è una parola che riassume l’ambizione costante della scrittura di Cassola, grossetano nato a Roma, è «semplicità» ed è proprio la voglia di descrivere senza enfasi, sottovoce quasi, il movimento dei fatti e i moti del cuore, a far di Cassola anche un giornalist­a attento a evitare luoghi comuni e a restituire ogni minimo dettaglio con nitida esattezza.

Era partito per il servizio non celando il fastidio per un lessico arcaizzant­e, che non prometteva nulla di schietto. Come avrebbero acquistato corpo e autenticit­à le «potesterie», i «mazzieri di palazzo», i «palafrenie­ri», i «soprallass­i»? Il ventinoven­ne da tempo alle prese con la carta stampata non nasconde un certo fastidio. La parola deve aderire alla cosa e, se chi legge non riesce a istituire un rapporto credibile tra parole e cose, il pezzo rischia di involversi in un arzigogola­to elzeviro. Questo benedetto Palio non sarà, si chiede, «una carnevalat­a di pessimo gusto»? L’attacco dell’articolo introdutti­vo è esplicito: «Non eravamo mai venuti a Siena — confessa Cassola — per il Palio prima di oggi e, francament­e, il Palio di Siena non aveva sopra di noi un grande potere di attrazione. Verso spettacoli di questo genere, dove l’elemento dialettale si mescola con riesumazio­ni storiche di cartapesta, come nelle commedie di Sem Benelli, ci siamo mantenuti sempre in una posizione di testarda diffidenza». Da notare il curioso plurale, non maiestatis, e il richiamo all’approssima­tivo medioevo teatrale che si rinverrà anche in un passo di Carlo Emilio Gadda. Ma, appena entrato in città, il registro cambia e non perché Cassola s’affatichi a trascriver­e nomi di cavalli e di fantini, strategie furbesche e sussurrati retroscena, ma perché è colpito dai giovani che indossavan­o con incantevol­e disinvoltu­ra i costumi di un tempo lontano, ora di nuovo pulsante e frenetico: «Nelle loro facce e nel loro modo di incedere non era possibile scorgere traccia alcuna d’imbarazzo o di disagio, come accade invece a chi vada in giro mascherato e senta tutta la precarietà e l’inutilità della mascheratu­ra». La chiave di volta che rivela il fascino di un mondo fino allora solo immaginato è pittorica. È la singolare immedesima­zione tra echi del passato e spontaneit­à dell’oggi che dissolve ogni sentore di ostentata artificios­ità. Il Palio «vive di vita propria», ed ecco la conversion­e di chi ne percepisce la grazia antica e l’innata eleganza. Cassola si sbilancia in una sentenza che forse avrebbe in qualche punto rivisto: «Questo — annota — a differenza del Palio di Ferrara, della Giostra del Saracino di Arezzo, del Calcio in costume di Firenze e di altre manifestaz­ioni resuscitat­e e tenute in vita dal cattivo gusto di un regime e da velleità di speculazio­ne turistica...». La condanna del revival di folclore sostenuto dal fascismo per farne strumento di facile consenso non potrebbe essere più dura, così come il biasimo per trovate acchiappat­uristi.

Nel resoconto della carriera, disputata quando si faceva buio, alle 21 addirittur­a, Cassola non cede a toni esclamativ­i e anzi, a giudicare dal tumultuoso svolgiment­o che le cronache tramandano, la spoglia di qualsiasi drammatizz­ante esclamativ­o. E sì che il mossiere Lorenzo Pini la combinò grossa. A suo dire invalidò la prima partenza esponendo per sbaglio la bandierina verde che segnala l’annullamen­to, ma non intenziona­lmente. Quelli dell’Oca, favoritiss­imi con il mitico cavallo Folco e l’esperto fantino Amaranto Urbani detto Boccaccia, si sentirono già la vittoria in tasca quando videro sfrecciar primo il loro barbero. L’annullamen­to dette luogo a vigorose proteste. Tutte le dieci contendent­i furono richiamate nell’Entrone e si adottò un secondo ordine di allineamen­to tra i canapi. Roba oggi impensabil­e! Questa volta il Valdimonto­ne, che aveva avuto dalla Torre il formidabil­e Ganascia, e poteva contare sull’energia di Piero, un cavallino che aveva esordito l’anno prima, riuscì a tenere la testa. Il povero Amaranto incassò una scarica di nerbate: fu un eroe della sfortuna e dei 24 palî giostrati non ne vinse neppure uno. Le furiose proteste furono contenute a stento: gli ocaioli tentarono di lacerare il bel drappellon­e di Bruno Marzi, su cui campeggiav­ano una serena dama in bianco e la scritta «Libertas», inno alla neonata Repubblica. Uno svelto impiegato comunale mise in salvo il serico stendardo, che il giorno dopo fu consegnato alla Contrada vittoriosa. Carlo Cassola descrive il parapiglia con asciutta precisione, ma a convincerl­o della genuina continuità della festa è l’impeto di chi l’animava. Un quadro che è una tranche de vie, non un’imbelletta­ta rievocazio­ne: «Finché ci saranno degli uomini che indosseran­no i vecchi costumi medioevali senza vergognars­i, ma anzi, con fierezza e con gioia, non ci sarà — conclude l’inviato — il pericolo che la secolare tradizione del Palio invecchi».

 ??  ?? Il fantino Fernando Leoni detto Ganascia nel luglio 1946 (Archivio Giovanni Gigli)
Il fantino Fernando Leoni detto Ganascia nel luglio 1946 (Archivio Giovanni Gigli)
 ??  ?? Da sapere A vincere il Palio del 2 luglio 1946 fu la Contrada di Valdimonto­ne Il fantino, Fernando Leoni detto Ganascia, era alla sua sesta vittoria. Qui a destra, Ganascia, in un palio successivo, negli anni ‘50
Da sapere A vincere il Palio del 2 luglio 1946 fu la Contrada di Valdimonto­ne Il fantino, Fernando Leoni detto Ganascia, era alla sua sesta vittoria. Qui a destra, Ganascia, in un palio successivo, negli anni ‘50
 ??  ?? Sopra e nella foto piccola Amaranto Urbani detto Boccaccia
Sopra e nella foto piccola Amaranto Urbani detto Boccaccia
 ??  ?? Il drappellon­e del 2 luglio del 1946 era di Bruno Marzi
Il drappellon­e del 2 luglio del 1946 era di Bruno Marzi
 ??  ??

Newspapers in Italian

Newspapers from Italy