CIELI BASSI IN LUCCHESIA (QUELLE GIORNATE INERTI)
Le gite a villa Mansi, il risveglio sul Serchio, il suono delle campane dopo le 4 del pomeriggio Quei ritorni nei luoghi dell’infanzia che fanno bene al cuore. Con nuovi amici e vecchi ricordi
Anno 1959, 21 giugno
M i sveglio molto presto. Saranno le cinque. Dalla finestra che guarda la valle entra la luce fresca del mattino. Sedendomi sul letto vedo il colle di Santo Stefano di Moriano con in alto il castello. Scivola verso la pianura con un crinale di cipressi. Vi sono piccole strade che percorsi nel 1922; quasi risento l’acre e dolce aroma delle bacche. Allora, trovandomi bambino sul ponte e guardando il corso del Serchio che esce con una certa solennità dalla valle, ebbi l’impressione di panico che si ha davanti ad una bellezza sfuggente. Oggi, quella bellezza sfuggente, sebbene la prospettiva sia diversa mancando la vista del fiume, di cui vedo solo alcuni specchi lucidi tra gli arbogatti della riva (bisogna che accerti se arbogatti e betulle sono la stessa cosa), quella bellezza è davanti a me. L’ho comprata coi ventun milioni delle Focette. Non ho però scelto il posto per il panorama a cui sono affezionato. Anzi ignoravo di poterlo avere davanti così fisso, come in un quadro. Le ragioni dell’acquisto si spiegano con gli stimoli della fantasia che non ha mai smesso di lavorare in questi lunghi anni.
15 agosto
È una giornata inerte. Dopo le quattro del pomeriggio le campane cominciano a suonare. L’onda saliva al cielo dalle colline e dalla pianura. Scopro che tali suoni li ho conservati dentro e che suscitano alcune immagini. Quella d’un pomeriggio come questo, inerte, senza una ragione. Uno di quei lunghi pomeriggi che finiscono con una sera già anticipata e perciò quasi precocemente autunnale. Altre immagini: la pianura, la stessa che mi si stenderebbe davanti se m’affacciassi. Mio nonno che noleggia un calesse (certo un’altra stagione) e mi porta fuori città. Lui vestito di grigio, gli occhi grigi; grigi i boschi di arbogatti dalle foglie tremule; grigie, allora, le strade di polvere, grigie le porte delle case, delle botteghe chiuse a causa d’un giorno festivo. Tanto le campane di questo giorno, il bianco degli arbogatti, le strade polverose, gli occhi grigi di mio nonno, uguali ai miei, il suo abito festivo grigio, i suoi capelli neri infarinati di fornaio, si mescolano alle mie origini. Verso le sei e mezzo partiamo per i Ronchi. C’è la festa annuale dei Carandini. Costeggio dopo Borgo Giannotti la riva destra del Serchio dove gli arbogatti sono piú folti. Coprono la brevissima pianura fra le colline di Carignano e il fiume. Gente quieta e rada. Fidanzati seduti sui parapetti dei ponti che scavalcano i fossi. A Viareggio una folla di gente stanca, forse delusa. Ai Ronchi la calma di tutti gli anni. Molti amici vogliono che descriva Saltocchio e decidono di venirmi a trovare. «Tu non m’inviti ma io vengo lo stesso» dice Giovanni Enriques. «So che ha comprato una casa in campagna » mi dice il professor Medea. «Sono tornato — rispondo — nei luoghi dove abitavo, d’estate, da bambino ». Poco dopo Medea dice a Rina: «Tornare dove si visse nell’infanzia fa molto bene ».
27 settembre
A Segromigno per l’incanto della villa Mansi. Per arrivare costeggiamo le colline da Saltocchio a Marlia poi entriamo nella pianura percorrendo strade strette, diritte, ben tenute, costeggiate da piccoli boschi di arbogatti. Risaliamo il breve pendio che porta alla villa Mansi. L’umidità autunnale e la lievissima pioggia che da ieri scende sulla pianura lucchese, rende verdissimi i prati; le siepi di mortella invece sembrano più nere. La sala dove si svolge l’asta è piena. C’è gente anche nel portico che domina il prato e il pendio della campagna che un tempo, verso le colli- ne di Compito, era chiusa dal lago di Bientina ora prosciugato. Bruno Vangelisti, il banditore dell’asta, quando mi scopre mi chiama. Me ne vado con Franco e Rina. Ci rechiamo al giardino di Collodi. «La Toscana — dice Franco vedendo tanta gente — è tutta una città». Beviamo il caffè, spediamo cartoline e torniamo a Segromigno. C’è l’aria delle sere d’autunno lucchesi che conosco così bene. Il cielo basso, l’umidità mi spingono a paragonare il luogo a certi parchi di Londra. È un confronto che faccio spesso tra due luoghi che amo. Cerco così dicendo di definire un clima che attenua tutto: colori, rumori e sentimenti e che spinge a raccoglimenti interrotti da improvvisi e quasi irresistibili desideri di compiere un’azione. Capitiamo che c’è l’intervallo. Vangelisti vorrebbe trascinarmi nel piano seminterrato a bere qualche cosa. Trascina con sé industriali, artisti cinematografici e registi. Alessandro Blasetti è così felice, anzi sicuro, d’essere al centro dell’attenzione generale da sfiorare Franco e me senza vederci. Renato Castellani va avanti e indietro, serissimo e distratto. Lo seguono Mario Monicelli e Suso Cecchi d’Amico. Ci sediamo in prima fila. Gerardo Mansi, figlio del marchese Luigi, mi si siede accanto e mi dice: « Era fatale farlo...». Aggiunge che è stato difficilissimo convincere gli altri membri dell’aristocrazia lucchese a non considerare l’asta una cosa vergognosa. «Io ho detto — continua il giovane Mansi — se no, cosa mi resta da fare? Devo mettere della dinamite e far saltare tutto? » Intravedo un’idea più che sua di Vangelisti: bandire ogni anno un’asta...
Anno 1960, 26 settembre
Questa casa esiste da quasi due secoli e mezzo ma certe volte penso che nessuno l’abbia mai capita e che per la prima volta si sveli a me. Ho capito tante cose: le sere quando di là dalla pianura i monti pisani diventano blu poi impallidiscono; il suono delle campane parrocchiali, così poco ecclesiastiche, le quali diffondono nella valle una lunga onda di suoni simili ad un’eco; la linea alta dei monti sul cui crinale sono le file dei cipressi, un tempo forse più numerosi. Ho capito la simmetria delle piccole valli, i cui fianchi sono boscosi su e coperti di vigne geometriche giù. E ho capito soprattutto la corrispondenza fra il prato davanti a casa, chiuso da un muro al centro del quale è un cancello alto poco più d’un metro, di ferro dipinto di nero e il castello di Moriano in cima al colle boscoso di là dal fiume. Forse ne tenne conto l’architetto quasi due secoli e mezzo fa. E dopo tanto me ne compiaccio io ogni mattina che sono qui quando apro la finestra (anzi la faccio aprire da chi mi porta il caffè e sto coricato a guardare la lieve nebbia che circonda l’edificio lassù, dritto davanti a me e i casolari vicini).
(Testi tratti da Diario di Campagna (19591969), introduzione di Paolo Vannelli © Copyright 2010 Per Il diario di Campagna: Eredi Benedetti Per l’Introduzione: Maria Pacini Fazzi editore – Lucca. La prima edizione del Diario di Campagna uscì edita da Editori Riuniti nel 1979 a cura di Ottavio Cecchi)